Berlinguer nuovo segretario del PCI

Intervista ad Enzo Biagi, maggio 1972

 

È una domanda d’obbligo: com’è diventato comunista?

    Da ragazzo c’era in me un sentimento di ribellione. Contestavo, se vogliamo usare una parola di moda, tutto. La religione, lo Stato, le frasi fatte e le usanze sociali. Avevo letto Bakunin e mi sentivo un anarchico. Nella biblioteca di uno zio, socialista umanitario, trovai il Manifesto di Marx; poi conobbi degli operai, degli artigiani che avevano seguito Bordiga, e che anche con il fascismo conservavano i loro ideali. Esercitarono su di me un forte richiamo; c’era, nelle loro vicende, molta suggestione.

Berlinguer è stato, dicono, il delfino di Togliatti. Quando l’ha conosciuto?

    A Salerno; allora il governo era laggiù, nel 1944. Mi presentò mio padre; erano compagni di liceo. Ne avevo già sentito parlare, ma come Ercole Ercoli, o Mario Correnti, il nome che usava ai microfoni di Radio Mosca. Gramsci, invece, aveva studiato a Cagliari.

La Sardegna ha il suo peso nel vostro partito.

    Già. Togliatti e Gramsci erano molto bravi a scuola, vinsero una borsa di studio dell’Università di Torino e là s’incontrarono. Togliatti si licenziò con tutti otto e qualche nove. Hanno ritrovato la pagella. Bravissimo. Ma sua sorella lo batteva.

E il liceale Berlinguer come se la cavava?

    Io? Normale. In mezzo. Molti sei, qualche sette, pochi otto. Ma non dimentichi che tra i sardi c’è anche Velio Spano. Togliatti era figlio di un economo dei convitti nazionali, trasferito nell’isola; c’è ancora chi lo ha in mente come un giovanottino studioso, riservato, che non si occupava di faccende politiche. Rimasero sbalorditi quando seppero che Ercoli era lui.

E Benedetto Croce lo ha visto?

    Certo; per un periodo sono stato anche un suo seguace. Lo vedevo sempre a Salerno, alla mensa del ministero delle Finanze. Pure i collaboratori di Badoglio che non avevano macchine, e allora non c’erano ristoranti, mangiavano con gli impiegati, quelle terribili pappette americane e la carne in scatola. Se non è irriverente, ma forse non è il caso di dirlo, Croce mi faceva impressione per il buon appetito che dimostrava.

Sono accadute molte cose da allora. C’è chi sostiene che, pur di andare al potere, vi accontentereste anche di un sottosegretariato alle Poste.

    No, chiederemmo di sicuro qualcosa di più. Ma che bisogno c’è di entrare in un governo? Potremmo anche appoggiarlo, standone fuori.

Che cosa è mutato da quando sedevate attorno a De Gasperi, con i liberali? Intendo dire: cambiato per voi?

    A quell’epoca c’era un grande entusiasmo. C’era la fede nell’URSS e in Stalin, e i dirigenti erano fuori da ogni critica, si erano guadagnati il rispetto di tutti nella lotta antifascista. Poi i rapporti si sono fatti più mossi, il dibattito più libero, si sono poste questioni e si sono discusse. L’adesione al partito è diventata più razionale, più meditata. C’è stato, e penso che nessuno abbia difficoltà a riconoscerlo, un progresso notevole. Infine è arrivato lo scossone del XX Congresso.

E non avete più insistito nel proporre i vecchi modelli: l’Ungheria, la Polonia o l’Unione Sovietica, che era sempre il paese al di sopra di ogni sospetto.

    Non nascondiamo la nostra simpatia, ma neppure la nostra posizione, che non esclude il dissenso. In ogni caso il tipo di socialismo che si può e si deve costruire da noi è del tutto diverso. Per intenderci, all’Est lo sviluppo dei fatti è stato condizionato dalla situazione interna e da quella internazionale. Guerra fredda e accerchiamento hanno determinato certe scelte dell’URSS. Solo la Cecoslovacchia aveva alle spalle un minimo di democrazia borghese. Poi ci sono stati, è evidente, gli errori, che bisogna ammettere, perché non basta la ragione storica a spiegare certe limitazioni a un regime di democrazia politica.

È quasi una confessione.

    No, è un’analisi. Ci sono alcune libertà, come quella di stampa, che hanno un valore assoluto. Ma bisogna che ci siano anche certi mezzi per renderle effettive. Alcune giuste esigenze sono limitate dal capitalismo, dallo sfruttamento di classe. Ma già la nostra Costituzione, che è una delle più avanzate, contiene principi e norme che tracciano nuove strade: il diritto al lavoro, all’istruzione, all’assistenza aprono la via ad alcune riforme economiche che devono tener conto della particolare struttura dell’Italia, dove non ci sono soltanto una grande borghesia e un proletariato, ma anche un ceto medio produttivo, che va conservato perché in alcuni campi l’iniziativa dei privati può giovare allo sviluppo dell’intera società.

Sono queste affermazioni, forse, che hanno provocato la nascita del Manifesto. Cosa è stata per lei questa frattura?

    Non una sorpresa, ma un fatto doloroso. Erano compagni con i quali abbiamo vissuto tante esperienze.

Come spiega la sfiducia di fondo che c’è per i vostri programmi? Forse scontate anche i fallimenti e gli sbagli di alcune repubbliche socialiste.

    Nove milioni di voti, uno e mezzo di iscritti, non sono un bilancio che denuncia una grande diffidenza nei nostri confronti. Un partito serio non può permettersi di enunciare una linea e di comportarsi dopo in maniera opposta.

Veramente c’è una casistica che potrebbe dimostrarlo.

    Comunque non saremmo mai soli, saremmo sempre con gli altri. La gente crede in noi, e noi offriamo garanzie alla gente anche contro di noi. Non siamo, bisogna intendersi, disposti a collaborare con tutti, ma con coloro che si riconoscono in alcuni obiettivi comuni.

Non è un riferimenti a testi classici, tutt’altro. Ricordo una scenetta che recitava, nel primo dopoguerra, Totò. Gli annunciavano l’arrivo di un russo e lui aveva paura. «Ma è un russo buono», diceva l’attore che gli faceva da spalla. E lui: «Sempre russo è». E l’altro insisteva: «Ma un russo bianco.» E Totò: «Sempre russo è». E così molti pensano del PCI.

    Scusi, ma perché la Democrazia Cristiana, avendone la possibilità, non ha instaurato la sua dittatura? Non esiste nessun partito che, per definizione, sia alieno dal prendere tutto il potere. Vedi Tambroni, vedi la «legge truffa». Noi chiediamo una leale intesa con gli altri, e non posso dire «Dio sa che sono sincero».

Lo dica, perché no?

    Perché non sono credente.

Sua moglie lo è?

    Sì, lei crede.

E i suoi quattro figli sono battezzati?

    Non mi va di parlare di loro, devono restare fuori, devono poter fare liberamente le loro scelte, senza alcun pregiudizio.

Perdoni l’insistenza. Sono, anche loro, nella fase anarchica?

    La maggiore ha tredici anni; sarebbe troppo precoce.

È passata un’ora. Alle due Berlinguer se ne va: «Per scrivere”, spiega, «per studiare, in casa mi trovo meglio.» Togliatti aveva alle spalle l’hotel Lux di Mosca, il Comintern, Dimitrov e la Pasionaria, le purghe e Stalin; Longo la guerra di Spagna e le brigate partigiane. Enrico Berlinguer esce da una biblioteca di buoni borghesi antifascisti, da una scuola di partito, dalle conversazioni che faceva, in un paese della provincia di Sassari, con pastori e marinai. Disse un pescatore che l’aveva conosciuto a quei tempi a un cronista che inutilmente cerca un po’ di colore: «Era un bambino serio, molto chiuso. Non rideva mai.» Già. È la stessa osservazione che un monsignore avrebbe fatto a Paolo VI: «Molti si chiedono perché è così raro vedere Vostra Santità sorridere.» «Che motivo ne avrei?», rispose il papa.

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