L’innovatore scomodo

di Nicola Tranfaglia, l’Unità 7 giugno 2004


In queste settimane che hanno preceduto il ventesimo anniversario della scomparsa drammatica di Enrico Berlinguer mentre teneva un comizio a Padova per le elezioni europee del 1984, sta succedendo un fenomeno a mio avviso positivo e insieme curioso. Quello che fu, come ormai tutti riconoscono, l’ultimo grande segretario del Partito comunista italiano e nello stesso tempo un protagonista della politica internazionale come di quella italiana, è diventato scomodo per alcuni dei suoi naturali eredi.

Ma nello stesso tempo affascina ancora molti che non appartengono all’uno o all’altro partito attuale della sinistra ma che si colloca nel mondo assai largo di quelli che votano il centro-sinistra e provengono dalla cultura cattolica o da quella democratica e socialista.

Naturalmente i punti di vista divergono ancora quando si tratta di giudicarne l’attualità politica o culturale. Ci sono quelli che hanno accettato la divisione piuttosto artificiale degli ultimi anni tra “riformisti” e “radicali” e, in virtù di questa differenza, guardano oggi a Berlinguer come se fosse “da dimenticare” in quanto immerso nel periodo della guerra fredda e di un partito comunista ancora legato al comunismo sovietico. È il caso di Claudia Mancina, che pure ebbe una forte presenza politica proprio negli anni ottanta. Qualche giorno fa ha scritto un lungo articolo su Berlinguer per “il Riformista” cogliendo da una parte il ruolo decisivo che ebbe l’uomo politico sardo a livello internazionale ma criticando, dall’altra, una concezione della democrazia accettata come valore universale nel 1977 e lo sforzo indubbio di allontanarsi dal modello sovietico come passi ancora troppo timidi sulla strada dell’uscita dal comunismo e dalla storia del partito comunista togliattiano.

Peccato che Claudia Mancina abbia messo da parte completamente i condizionamenti che la guerra fredda e lo scontro tra i due blocchi ponevano al segretario comunista giudicando dunque esclusivamente con gli occhi di oggi un processo storico che allora era in corso e che non poteva dare subito i frutti a cui pure lo stesso Berlinguer mirava.Sicché da quell’articolo non emerge l’innovatore che sicuramente fu l’ultimo grande segretario del Pci ma una sorta di politico di oggi senza la spregiudicatezza che la fine del comunismo sovietico ha dato ai naturali eredi di quella storia.

Ma la lacuna maggiore della ricostruzione che ci ha proposto nel suo articolo non riguarda soltanto la storicizzazione di quel periodo così lontano per molti aspetti dalla situazione attuale bensì gli aspetti più nuovi e interessanti dell’elaborazione politica e culturale del segretario comunista che viene sempre più alla luce allargando lo sguardo alla situazione internazionale e agli intensi rapporti di Berlinguer con la sinistra europea e in particolare con la socialdemocrazia tedesca di Willy Brandt, non a caso rovesciato in maniera assai discutibile dalla vicenda della spia della DDR, e di quella svedese di Olof Palme, ucciso misteriosamente quando era al culmine della sua azione politica.

Se si guarda invece al contesto internazionale e alle novità che emergono in Berlinguer dopo la scomparsa di Moro e il fallimento della solidarietà nazionale (giacchè il compromesso storico non ebbe mdo di realizzarsi per la forte contrarietà degli Stati Uniti) si ha un quadro assai diverso e meno statico di quello che risulta dalla lettura di Claudia Mancina. Non si accenna neppure, ad esempio, alla critica severa che Berlinguer rivolge agli inizi degli anni ottanta al sistema dei partiti e alla loro invasione delle istituzioni italiane, al ruolo politico crescente di nuovi soggetti come i giovani, le donne, i movimenti sociali, all’attenzione sempre più forte alla globalizzazione vista soprattutto come profonda disuguaglianza tra i due quinti sviluppati e i tre quinti ancora dominati dalla fame e dall’arretratezza, alla centralità necessaria del rapporto tra etica e politica e tra cultura e politica destinati a non trovar posto adeguato nei successivi decenni.

Tutta questa parte che potremmo sintetizzare nei nodi di una globalizzazione giusta, di una questione morale sempre più attuale, di una elaborazione culturale tanto più necessaria nel momento in cui crollano vecchie certezze e la sinistra ha bisogno di nuovi punti di riferimenti e di programmi in grado di reggere contro l’offensiva neoliberista è un terreno di innovazione che successivamente è stato in buona parte abbandonato e che invece torna oggi di estrema attualità di fronte a populismi che sono al potere in vari paesi e che rischiano di svuotare dall’interno la democrazia occidentale.

Da questo punto di vista l’opera di Berlinguer, pur con i limiti che derivano da una fase piena di scandali torbidi e dall’emersione proprio negli anni ottanta di un’impresa assai pericolosa come l’assalto della P2, troppo presto dimenticato, ha due caratteristiche che la fanno amare e rimpiangere proprio alla base di quello che venne una volta definito come il largo popolo della sinistra, che ha subito negli ultimi vent’anni molte delusioni a giudicare dall’allargarsi di una scelta sterile come quella dell’astensionismo elettorale e del distacco tuttora esistente tra la società politica e quella civile.

Berlinguer, occorre ricordarlo ancora una volta, ritenne che la sinistra italiana e quella europea avesse bisogno di una strategia generale accanto alla tattica quotidiana e si adoperò per identificarla, dall’interno dei partiti ma con grande apertura verso la società, e i risultati elettorali videro nei primi anni ottanta un’inversione di quel declino intervenuto dopo le elezioni vittoriose del 1976. Probabilmente il peso dei condizionamenti internazionali gli impedì di portare a termine quel processo ma seppe indicare la direzione in cui la sinistra italiana doveva andare per integrare le masse popolari e ridare fiducia nei partiti e nella politica.

Fu un uomo solo, lasciato solo da molti che pure gli erano stati vicini, ma non a caso rispettato anche dai suoi avversari. Dimenticarlo in nome di un pragmatismo a tutto campo non sembra, a mio avviso, il modo migliore per ricostruire una sinistra moderna e il più possibile unita. Al contrario vale la pena (e questo lo hanno capito in tanti in queste settimane in tutta la penisola) riesaminarne a fondo la vita, cogliere gli aspetti innovatori del suo percorso, portare più avanti le intuizioni politiche che ebbe, riprenderne la battaglia aperta contro la vecchia e nuova destra salita al potere.

Questa è, in fondo, la ragione di fondo del fervore culturale e politico che ho notato nelle ultime settimane e che ha portato chi scrive e molti altri a percorrere molte città e regioni della penisola per rievocare una pagina, a quanto pare, non dimenticata della storia contemporanea del nostro paese.

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