Per Enrico, Per Esempio

di Walter Veltroni Padova, Piazza dei Frutti – 7 giugno 1999 15° Anniversario dell’ultimo comizio di Berlinguer


Care compagne e cari compagni, care cittadine e cari cittadini, caro Giovanni, ho ancora negli occhi l’immagine di quella Piazza S. Giovanni, il 13 giugno di quindici anni fa. Risento la sensazione di quell’estate calda, di quel dolore grande e strano. Strano perché il dolore, quello vero e forte, è di solito un sentimento terribilmente riservato e personale. Invece, quel giorno, in quella Roma torrida, milioni di persone vivevano la stessa angoscia, lo stesso dolore.

L’Italia, tutta l’Italia, fu triste, per qualche giorno. Emerse un sentimento collettivo, un’emozione condivisa. Qualcosa che viaggiò nell’aria e unì gli italiani. Vennero a Roma, molti con le bandiere della loro storia. Molti solo con la voglia di condividere, e così sperare di lenire, un dolore davvero grande.

Enrico Berlinguer era il segretario del Pci. Un partito forte, stimato, ma anche legittimamente e aspramente combattuto. Un partito contro il quale si erano erte dighe, costruiti governi e maggioranze, persino talvolta alimentate trame inquietanti. Non era un partito, e neanche il suo segretario lo era, che potesse piacere a tutti. Era quindici anni fa. Era un altro mondo, diviso in blocchi, ferocemente segnato da ideologie pesanti. Era, da questo punto di vista, un mondo peggiore di questo. Ciò che voglio dire è che la “stranezza” di quel dolore era racchiusa proprio nel fatto che Berlinguer non era un uomo di “tutti”.

Non era certo di quelli che si sottraevano alla durezza dello scontro politico, di quelli che non avevano avversari. Eppure quel giorno, a Roma, vennero tutti. Tutti gli resero omaggio, anche i suoi avversari più fieri. Ma ciò che mi colpisce, ancora oggi, è il ricordo della portata di quel dolore, della misura di quella tristezza. Ha scritto una persona alla quale ho voluto molto bene, uno dei più grandi giornalisti italiani, Andrea Barbato, che quello che si provò in quei giorni di giugno era “un dolore politico, cioè la perdita repentina e inattesa di qualcuno di cui si condividono non già le abitudini e gli affetti, ma le idee e le speranze, ciò che è un sentimento raro e diverso“. E aggiungeva: “C’è un’altra lezione da raccogliere. Che in questa Italia che sembra così spensierata e frivola, dove la politica sembra talvolta un gioco di specchi, di gesti e di maschere, ecco che si compone all’improvviso il ritratto scritto coralmente e avvertito dalla coscienza comune, di un modo serio di fare politica, rivolgendosi alla ragione degli uomini. E ci si accorge come, contrariamente a ciò che pensano gli osservatori più futili, questo stile sia universalmente apprezzato e condiviso e generi una stima che va molto al di là delle fazioni o delle bandiere. Sicché non c’è da disperare della sopravvivenza di un’Italia attenta, fervida, costante“.

E’ questa Italia, attenta, fervida e costante, che sto cercando, che sto trovando, nel mio viaggio di queste settimane nel nostro Paese. Vedete, il pullman dei Democratici di sinistra, con il quale stiamo girando l’Italia ormai da venti giorni, in questa bella e faticosa campagna elettorale, ha toccato decine di città, decine di piccoli paesi, si è fermato in tante piazze, ha trovato ad attenderlo tanti compagni, ha trovato cittadini che guardano a noi con fiducia, ha trovato – e noi abbiamo ritrovato – moltissimi giovani, ragazze e ragazzi che si avvicinano alla politica, al nostro modo di intenderla e di viverla. Ciò che speravo, ciò che sognavo quando è iniziato il mio lavoro. Credo possiate capire il mio stato d’animo. Per il bene che volevo a Berlinguer. Per il fatto che come accadde a molti altri fu grazie a lui, all’inizio degli anni Settanta, che scelsi il Pci, vedendo in esso non un’ideologia ma il luogo migliore dove impegnarsi per difendere le ragioni dei più deboli, per conquistare diritti civili e di libertà, per affermare valori di solidarietà e di giustizia sociale.

E credo possiate immaginare le sensazioni provocate dal fatto di trovarmi, oggi, ad avere una responsabilità simile a quella che aveva allora Berlinguer, dal fatto di essere stato chiamato a guidare la più grande forza della sinistra italiana e di affrontare, con essa, un appuntamento elettorale così importante. Quindici anni fa, in momenti come questi, Enrico Berlinguer stava combattendo su questo palco con la sfida della morte. Forse molti di voi erano qui. Tutti noi, dovunque fossimo, quella notte arrivammo con le nostre emozioni qui. La memoria rimanda dei flash nitidi e violenti. Pertini, il Presidente della Repubblica che in una giornata triste e piovosa volle riportarlo a Roma, sul suo aereo, “come figlio e compagno”.

I titoli de “l’Unità”, prima quasi ufficiali, poi via via sempre più collegati all’emozione collettiva del Paese: “Berlinguer gravissimo”, “L’Italia con il fiato sospeso”, “Berlinguer condizioni disperate”, “Ti vogliamo bene Enrico”. E poi quella edizione straordinaria: “E’ morto”. E poi ancora “Mancherai a tutti” e “Addio”, con la foto, bellissima, di Berlinguer in barca, con una giacca a vento, sorridente. Ricordo ancora la folla muta e silenziosa a via delle Botteghe Oscure, ricordo l’arrivo dei treni e delle navi, ricordo Fellini impettito davanti alla bara di Berlinguer, ricordo gli operai dell’Italsider, la fabbrica di Guido Rossa.

E ricordo le parole che furono scritte in quei giorni. Ciò che scrisse Norberto Bobbio: “Caratteristica fondamentale di Enrico Berlinguer è stata, a mio avviso, quella di non avere i tratti negativi che contraddistinguono tanta parte della classe politica italiana. Penso alla vanità, all’esibizionismo, all’arroganza, al desiderio di primeggiare che purtroppo fanno parte del mestiere, della professione del politico“.

O quello che scrisse Luigi Pintor: “E’ come se quest’uomo integro, verso il quale ho sempre provato un’istintiva amicizia, che in qualche modo sentivo ricambiata, fosse caduto vittima di uno sforzo troppo grande“.

O quello che scrisse Roberto Benigni: “Il dono breve e discreto che il cielo aveva dato a Berlinguer era di unire parole ad uomini, ora la sua voce è sparita e se è vero, come dice il poeta, che la vita si spegne in un falò di astri in amore, in questi giorni è bruciato il firmamento“.

Su “La Stampa” di Torino fu scritto amaramente che “Berlinguer predicava rigore, moralità equilibrio, pazienza, fatica, tenacia. Tutte cose così fuori moda“. Temo che un’affermazione di questo genere potrebbe essere valida anche oggi.

Sento nella crescente freddezza del rapporto tra i cittadini e la politica non solo una protesta ma anche una richiesta. Quella di una politica alta, che sappia unire realismo e valori, che sappia far coincidere responsabilità e onestà. E’ vero, la politica può essere orrenda, e lo è stata, in Italia. Ma può essere anche la forma più alta di attività umana. Anche per questo stasera siamo qui, per ragionare su Enrico Berlinguer.

Per difendere un’idea intensa e alta della politica, in un tempo in cui essa spesso sembra ridotta e mortificata in una dimensione frivola e spettacolare, in cui la fredda comunicazione televisiva o pubblicitaria sostituisce l’intensità e la verità dei rapporti che legano i cittadini e chi li rappresenta. E’ in primo luogo questo che stasera vogliamo ricordare di Enrico Berlinguer. Infatti tutto è cambiato, e sarebbe improprio e inopportuno mettere in relazione le nostre scelte politiche di oggi con le scelte di Berlinguer. La storia, anche la storia di un grande movimento come quello della sinistra, non è fatta solo di un lineare succedersi continuo delle scelte e delle strategie.

La storia, che fa salti anche repentini, richiede discontinuità, rotture, innovazioni. Berlinguer aveva, agli occhi degli italiani, una dote rara e perciò preziosa: quella di far sentire che credeva realmente in quello che diceva. Alcuni, in proposito, dicevano che era un moralista. Ma a parte il fatto che la polemica contro il moralismo di solito viene da parti molto sospette, non è di questo che si trattava. Berlinguer poneva con forza il grande tema della moralità nella politica.

Partiva dalla considerazione, semplice e dirompente al tempo stesso, che l’integrità e l’intransigenza ideale sono i presupposti, la legittimazione, di qualsiasi politica. Muoveva dalla convinzione che senza poggiare sul terreno dei valori la lotta politica si risolve in un puro rapporto di forza e la politica stessa rischia di ridursi a pratica quotidiana, o peggio ancora a un’attività volta a perseguire solo il tornaconto individuale o di gruppo.

Queste idee gli permisero di vedere, senza timore e prima degli altri, quello che negli anni Ottanta stava succedendo nelle pieghe più profonde del Paese, la degenerazione della vita pubblica, la diffusione dei poteri occulti, l’esorbitare del sistema dei partiti, la trasformazione di alcuni di essi in puri strumenti di consenso e di potere, in pericolose consorterie. Lasciatemi dire, a chi oggi sembra talvolta cavalcare in modo un po’ strumentale questi temi, che già allora Berlinguer pose con forza il problema della sfiducia e del distacco dei cittadini dalle istituzioni.

E che già allora sottolineò che per evitare questo, per combattere questo male, occorreva che i partiti cambiassero, che facessero un passo indietro. Sentite cosa diceva Berlinguer quasi vent’anni fa: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei programmi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune“.

E ancora, sottolineando come proprio questo fosse il punto essenziale della crisi italiana: “Noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi dello Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo…“.

La sua fu una vera e propria denuncia, perché aveva compreso che le degenerazioni erano arrivate troppo in profondità, che solo l’accento su una nuova moralità della politica poteva riscattare la reazione dei cittadini dal qualunquismo e dall’apatia, tramutandola in fattore di ripresa della democrazia italiana. Dal qualunquismo, badate bene. Perché alla determinazione e alla nettezza con cui diceva queste cose Berlinguer non accompagnò mai nulla che potesse far pensare, neanche minimamente, a una critica generica e indistinta contro il ruolo e la funzione dei partiti.

Sta di fatto che allora Berlinguer fu praticamente inascoltato, e anche criticato. Ma qualche anno dopo l’emergere di quel perverso intreccio tra partiti e potere che ha rischiato di portare l’Italia al collasso politico ed economico, avrebbe dimostrato quanto fosse giusto sollevare in quel modo il tema della questione morale. Berlinguer fece questo con grande coraggio, anticipando i tempi. E’ chiaro che oggi alcune delle grandi innovazioni che Berlinguer affermò nella sinistra italiana possono apparire delle ovvietà. Ma ciascun uomo è figlio del suo tempo, e nel suo tempo dimostra la misura del proprio coraggio, la quantità dei suoi dubbi, l’energia della sua capacità di innovazione.

Ci sono scelte, compiute in quegli anni da Berlinguer, che oggi appaiono segnate da elementi di conservatorismo, specie nel campo della politica economica e sociale. E tuttavia il tratto fondamentale di Berlinguer fu quello che Vittorio Foa definisce “la sua capacità, spesso geniale, di cambiare idee e politica quando questo gli appariva necessario per la classe politica e per il Paese che egli si sentiva di rappresentare. Per fare questo, per uscire dagli stanchi modelli ripetitivi della nostra vita politica, occorreva un grande coraggio morale, una ferma convinzione di essere nel giusto. Ci vuole una forza morale molto più grande per fare cambiare posizione a compagni ed amici che per affrontare frontalmente un avversario“.

Il coraggio, il coraggio di non arrestarsi di fronte ai conservatorismi del suo tempo, di capire e a volte di anticipare i cambiamenti, di battersi contro le pigrizie culturali e le resistenze ai mutamenti che a volte caratterizzavano la sua stessa parte politica, fu la sua più grande qualità, il tratto distintivo della sua azione. E di lui, se dovessi cercare una parola, un solo aggettivo per definirlo, per racchiudere la sua vita, direi che era una persona coraggiosa. Il coraggio Berlinguer lo dimostrò in tante occasioni. Ogni volta che trovò la forza di mettere in moto, anche affrontando il peso della solitudine, anche con le contraddizioni legate a un’epoca ancora troppo influenzata dalle ideologie, i processi di innovazione che riteneva necessari.

Certo, per riuscire a portare con sé chi al suo partito aderiva o faceva riferimento poteva capitare che accompagnasse le intuizioni e le accelerazioni con affermazioni più rassicuranti, inserite in un tempo e in un contesto che non sempre lasciavano i margini desiderati. In certi momenti, alcuni di noi avrebbero voluto vederlo accorciare i tempi e muovere ancora più speditamente lungo la strada del cambiamento. Specie nella rottura con l’Urss e con la storia del cosiddetto socialismo reale, nel rapporto con i quali il Pci aveva compiuto i suoi più gravi e tragici errori. Talvolta ci aspettavamo – ma era unattesa fiduciosa – un’estensione ancora più ampia, in tutti i campi, del coraggio di cambiare e di innovare.

Berlinguer ebbe coraggio e capacità di cambiare quando da solo, salito alla tribuna degli oratori in una gelida sala del Cremlino, tanto grande da far sembrare ancora più minuta la sua figura, andò a dire ai suoi potenti e paludati interlocutori: “La democrazia è un valore universale“.

Ebbe coraggio quando affidò a un’intervista, al bloc-notes di Giampaolo Pansa, parole che significavano una scelta politica profonda, quando affermò di essere più tranquillo sotto l’ombrello della Nato piuttosto che sotto quello del Patto di Varsavia, quando sancì in questo modo l’accettazione di fondo della collaborazione europea e atlantica. Ebbe coraggio quando in televisione, durante una tribuna politica, disse che la “spinta propulsiva” dei paesi dellEst era ormai esaurita.

Ed ebbe coraggio – tanto coraggio quanta era la pena che provò dal punto di vista umano – durante i giorni più difficili della sua esperienza politica e dell’Italia di quegli anni: durante il sequestro di Aldo Moro. Contro il terrorismo, contro le Brigate Rosse e prima ancora contro l’eversione nera, per la difesa delle istituzioni democratiche, Berlinguer si spese fino in fondo, con ogni energia. Anche se quella vicenda segnò la fine della politica per la quale aveva dedicato i suoi sforzi. Anche se la convinzione che le istituzioni non potevano in alcun modo cedere, trattare, piegarsi, volle dire al tempo stesso difendere con una generosità senza riserve quella democrazia e quello Stato che altri avevano ininterrottamente guidato per decenni. Si chiuse, allora, una stagione che avrebbe dovuto aprire una fase diversa della vita politica italiana.

Gli anni successivi si incaricarono di dimostrare che la violenza brigatista, quella grande illusione eversiva e sanguinaria, non solo non fece avanzare di un millimetro le condizioni dei lavoratori e dei ceti popolari, ma rallentò e ostacolò il cambiamento del Paese. Il terrorismo delle Br non fece avanzare la “dittatura del proletariato”, bloccò il cambiamento e contribuì a far affermare il Caf. Oggi le Brigate rosse sono tornate in azione con lo stesso obiettivo: fermare il cambiamento.

Quando ho abbracciato Olga D’Antona, il giorno dei funerali di suo marito Massimo, lei mi ha detto che a rendere ancora più agghiacciante ciò che era successo era la totale “inutilità” di quell’assassinio. Lo ha ripetuto dal palco della manifestazione dei sindacati, chiedendosi “in quale caverna” fossero vissuti i brigatisti per non essersi accorti che l’Italia è cambiata. Una cosa mi sento di poter dire pensando alla lezione di venti anni fa.

Pensando ai 400 morti della guerra italiana del terrorismo. Pensando alla scia di dolore e di sangue che le Br hanno lasciato dietro il loro cammino. Pensando a Carlo Casalegno o a Vittorio Bachelet, ad Aldo Moro o a Ezio Tarantelli. Pensando a quelle decine di ragazzi italiani, spesso figli di operai o di contadini, uccisi da figli di papà solo perché avevano addosso una divisa da poliziotto o da carabiniere. Una cosa mi sento di poter dire: non torneranno gli anni di piombo. Non torneranno perché c’è qualcosa che è molto più forte di loro, molto più forte degli spari, della violenza.

Ha ragione Michele Serra, che ha scritto sull’omicidio di Massimo D’Antona poche righe, bellissime: “Una borsa. Una di quelle borse di cuoio panciute e lise, farcite di libri e di documenti, che dondolano in mano ai professori, quando i professori camminano per strada. Questa era l’arma con la quale Massimo D’Antona partecipava alla vita pubblica, e con la quale dicono abbia cercato di farsi scudo contro il piombo. Dopo che l’hanno portato via, la borsa è rimasta sul selciato, ripresa da tutti i tigì e ritratta da centinaia di istantanee. Sui giornali di ieri, circondata da un cerchietto di gesso, quella borsa inerte aveva la solennità e l’intensità del lutto. Cadavere anch’essa, inerme come sono inermi gli studi, i ragionamenti, i pensieri di fronte all’odio. Se i simboli contano – e contano – il primo assassinio brigatista dopo undici anni di requie passerà alla storia come il duello tra una borsa e una pistola. Nell’immediato, non poteva che essere un duello di straziante disparità, marchio di vigliaccheria per chi uccide gli inermi. Ma appena diradati gli spari, si capisce che oggi come allora la geometrica potenza non è quella delle armi, ma quella del lavoro intellettuale, dello studio, della ragione politica. Le pistole si scaricano. Quella borsa rimarrà sempre carica“.

Care compagne e cari compagni, i compiti e le responsabilità che oggi ricadono sulle nostre spalle sono grandi, superiori a quelli di un tempo. Sono grandi quanto i cambiamenti che attraversano la nostra epoca, quanto gli interrogativi e le contraddizioni che essi sollevano. Di questi cambiamenti e di queste contraddizioni dobbiamo avere coscienza, così come Berlinguer ebbe il senso dei grandi processi, dei mutamenti della struttura del mondo che il suo tempo conosceva. Da qui nasceva, ad esempio, l’intuizione della “austerità”, il suo ragionare sulla sostenibilità dello sviluppo e sull’uso equilibrato delle risorse, la comprensione di come non fosse più differibile la ricerca di un modo per rendere armonici lo sviluppo economico e l’innovazione tecnologica con la difesa dell’equità sociale e la tutela dell’ambiente.

E da qui nasceva l’idea di un “governo mondiale”, qui affondava la consapevolezza dei grandi squilibri tra Nord e Sud del mondo, la volontà di affrontare l’insopportabile contraddizione tra aree ricche e forti del pianeta e aree deboli ed emarginate, schiave del sottosviluppo, della povertà, della fame. Quei problemi non sono risolti. Si ripresentano a noi, oggi. E ad essi, semmai, se ne sono aggiunti degli altri, legati al fatto che ancora manca, dopo la fine dei blocchi, un vero sistema di relazioni globali. La nuova cartina geografica del mondo ci segnala l’insorgere di troppi localismi e particolarismi, ci racconta di rivolte etniche e religiose, di conflitti per il controllo delle risorse, di perversi disegni di chi ritiene di poter disporre a piacimento delle popolazioni soggette alla sua autorità, di chi persegue obiettivi dettati da un nazionalismo nefasto e razzista, assurto a cultura politica e ideologia di Stato.

Il compito della nostra generazione, delle donne e degli uomini di sinistra che oggi in Europa governano tanti paesi, è, allora, quello di guidare il difficile passaggio tra un vecchio ordine che è finito e un nuovo assetto che è ancora di là da venire. E’ quello di progettare e di costruire il futuro, di lavorare per dare contenuto politico e istituzionale ai nuovi valori che dovranno essere alla base della convivenza pacifica dei popoli.

E’ quello di affermare un principio chiaro, di farlo vivere in qualunque parte del mondo siano compiuti soprusi, nei Balcani come in Kurdistan, in Cina come in Birmania: è il principio che dice che mai, mai più, la comunità internazionale dovrà assistere inerte all’azione di un governo o alla follia di un dittatore che calpesta i più elementari diritti dell’uomo, che commette crimini contro l’umanità, che porta a termine assassinii collettivi e operazioni di pulizia etnica. Di fronte a questo, di fronte a quello che abbiamo visto in Kosovo, è stato inevitabile intervenire.

Per le sole ragioni che conosciamo, perché per noi l’ingerenza umanitaria rimane l’unica finalità capace di giustificare l’uso della forza. Sarebbe stato più comodo, per tutti noi, far finta di non vedere. Di fare come fece l’Europa della destra, ai tempi della Bosnia. Rilasciare comunicati e dispensare buoni propositi mentre lì si continuava a morire o a fuggire. Sarajevo, pochi chilometri da qui, è stata un mattatoio per anni, le donne che uscivano a prendere l’acqua venivano centrate dai cecchini, le bombe cadevano sulla gente nei mercati. Ci furono migliaia di morti e centinaia di migliaia di profughi. E intanto, mentre quel dolore e quel sangue scorrevano come una cascata, la comunità internazionale versava lacrime di coccodrillo. Poi ci fu un bombardamento, e fu firmato l’accordo di Dayton, e con esso venne la pace.

Lasciamo da parte i Balcani. Ricordiamo l’Italia. Ricordiamo l’Europa. Ricordiamo il fascismo, il nazismo, l’Olocausto. Ci furono in Italia miglia di persone che scelsero di rischiare la propria vita per liberare il loro paese. E’, e rimarrà sempre, una delle pagine più gloriose della storia nazionale. E ci furono anche dei ragazzi, della Carolina e del Sussex, che lasciarono la loro famiglia, le loro case, il loro paese, e attraversarono il mare per venirci ad aiutare. Molti di loro, oggi, sono sotto le croci bianche del cimitero di Anzio, e molti sono caduti sulle spiagge della Normandia. Se anche loro avessero voltato le spalle, se anche loro si fossero limitati ad inviare un comunicato in cui auspicavano la pace quella tragedia dell’Europa sarebbe durata assai più a lungo. Non dimentichiamolo mai. Vedete, ci sono immagini e ricordi – quelli che abbiamo richiamato poco fa – che porteremo sempre nel nostro cuore. Ma ci sono immagini, cè un dolore, che non possiamo ammettere si ripetano ancora.

Non possiamo consentire di portare con noi e di ritrovare nel nuovo millennio ciò che da troppo tempo sta attraversando le nostre coscienze: lo sguardo di quelle donne e di quei bambini in marcia per chilometri per fuggire all’orrore, il pensiero di quei documenti strappati e di quelle identità rubate, i racconti dei villaggi distrutti, delle stragi, delle violenze e degli stupri, il dolore e la distruzione che ogni guerra porta con sé. Basta leggere i giornali di oggi, basta leggere dei corpi dei kosovari bruciati nei forni crematori per far sparire le tracce dei massacri o del giovane poeta torturato dalle milizie serbe con l’elettrochoc per le poesie che scriveva. Non è questo ciò che vogliamo. Non è questo che sta nella nostra storia e nelle culture che oggi ci attraversano. Non è a questo futuro che pensiamo. Noi vogliamo la pace, una pace vera, una pace giusta, in grado di assicurare il rispetto dei diritti umani e le libertà fondamentali di ogni individuo e di tutte le popolazioni, di qualunque etnia o religione.

Questo è ciò che vogliamo ovunque nel mondo e questo è ciò che abbiamo perseguito con ostinazione per quella regione: una pace che significasse la fine del tuonare delle armi, certo, ma anche, e soprattutto, la restituzione a centinaia di migliaia di persone del diritto di vivere nella loro terra, la possibilità per tutti i bambini del Kosovo di tornare a studiare e a giocare nelle loro scuole. Abbiamo perseguito questo senza avere facili certezze, ma coltivando delle ragioni, senza cercare riparo sotto vecchie coperture ideologiche, ma evitando nel concreto, quanto più possibile, che la logica militare schiacciasse la ragione della politica e liniziativa diplomatica.

Abbiamo così mantenuto sempre, come primo obiettivo, il rientro della popolazione kosovara nelle proprie case, sotto la garanzia di una forza militare internazionale. Lo abbiamo fatto sostenendo per primi la possibilità di una sospensione dei bombardamenti qualora Milosevic avesse accettato i principi fissati dal G8. E lo abbiamo fatto facendo fino in fondo i conti con noi stessi, non risparmiandoci nulla: dubbi, critiche, in alcuni momenti angoscia. La stessa che ci attraversa in queste ore in cui la speranza di pace sembra conoscere improvvise e inspiegabili difficoltà. Ci auguriamo davvero che Milosevic non faccia ancora una volta marcia indietro. E ci auguriamo davvero che la comunità internazionale resti coesa e compatta attorno alle posizioni del G8 e dei mediatori che avevano individuato una possibilità di pace.

Per conto nostro siamo consapevoli della necessità di risolvere il difetto di costruzione politica dell’Europa, delle incognite che gravano sul sistema politico internazionale, del problema di definire regole, luoghi e poteri decisionali in grado di evitare ogni possibile rischio di arbitrio. Ma tutto quel che è successo ha rafforzato, se possibile, la nostra convinzione di dover seguire un unico faro: quello del rispetto dei diritti umani, il tema centrale di questa fine millennio, la frontiera verso cui tendere ed elemento fondante dell’identità della sinistra democratica. Lasciatemi dire che sul piano dei valori e dei principi – perché è questo che ci ha guidato, e non motivi di realpolitik – la sinistra democratica è andata avanti, ha compiuto una sofferta e drammatica maturazione.

Lasciatemi dire che abbiamo affrontato una grande prova, nel corso della quale abbiamo dimostrato – il governo guidato da Massimo D’Alema ha dimostrato, la società italiana ha dimostrato – serietà e generosità, coerenza e coraggio. La coerenza di chi sa che i rischi ci sono, che occorrerà lavorare molto per codificare in sede Onu una disciplina dellintervento umanitario. Il coraggio di chi è consapevole che i cambiamenti che abbiamo di fronte non necessariamente avranno conseguenze positive, ma che proprio per questo ritiene indispensabile provare a guidarli.

Insomma, per capire e affrontare le tante questioni legate a un mondo che cambia serve coraggio. Serve coraggio e servono molte altre cose. Serve un partito della sinistra aperto e moderno, capace al tempo stesso di tenere con sé, traducendole alloggi, le pagine migliori della nostra storia. Serve ricordare sempre che un partito, senza memoria, non esiste. Perché un partito può avere dentro di sé molte memorie, può avere molte radici, ma non può esistere partito – lo dico in questo tempo di frammentazione esasperata e di partiti fuggevoli – che non abbia alcuna memoria, che non abbia alcuna radice.

Ma serve anche sapere che non ci sono ricette già pronte, che dal passato non si possono riprendere politiche e formule, ma solo metodi, atteggiamenti, un modo di porsi dinanzi ai cambiamenti senza preclusioni e aprendosi alle novità, senza fare affidamento su soluzioni precostituite e cercando sempre vie nuove. In una intervista a Moravia, pubblicata su “Nuovi Argomenti”, Berlinguer parlava proprio di questo: “La politica è prassi, movimento, sviluppo. Mutamento di rapporti di potere, creazione, innovazione, adattamento e comprensione verso i processi reali, sforzo (che mai si realizza compiutamente) di padroneggiare e governare forze non immobili che cambiano, che vanno interpretate… Chi si imbarca nel proposito di proporre o inseguire modelli in politica è condannato agli errori più inscusabili oltre che alle delusioni più cocenti”.

Questo ci ha insegnato Berlinguer. Questo ci ha insegnato la sua concezione della politica. Una politica “alta”, attenta a guardare lontano, ma che non per questo prescinde dalle coscienze reali delle persone in carne e ossa. Una politica ideale e concreta, capace di unire le parole agli uomini, con l’ambizione e la forza di non fermarsi al quotidiano, di andare oltre, di cercare, di immaginare, di progettare il futuro e di coinvolgere in tutto questo le speranze di tanti, la loro voglia di cambiare, di trasformare le cose. E non è forse vero, d’altra parte, che la sinistra italiana ha conosciuto i momenti più fecondi quando è stata capace di innovare profondamente la propria azione, quando non ha avuto timore di operare anche delle discontinuità con la sua storia?

Berlinguer portò al punto più alto l’innovazione di quella tradizione, lasciò un partito che aveva ancora contraddizioni e ritardi (contraddizioni presenti anche negli ultimi anni del suo lavoro) e lasciò a ciascuno di noi la possibilità, il compito, di proseguire, di cambiare, di operare discontinuità ancora più ampie. Ecco, io credo che se oggi siamo arrivati dove siamo, è anche perché da Berlinguer in poi non abbiamo smesso di immaginare ciò che avrebbe dovuto essere il nostro futuro, non abbiamo mai smesso di entrare in tensione, in relazione, con i mutamenti del nostro tempo.

Penso ovviamente al 1989, alla svolta, a una sinistra con il coraggio di operare una rottura profonda e di cambiare se stessa. Penso alla grande discussione democratica che condusse alla fondazione del Pds, ai due pilastri su cui poggiavano le ragioni della sua nascita. Per prima cosa la necessità di rompere lo schema della democrazia bloccata, di innovare le istituzioni, di cambiare la legge elettorale per fare incamminare lItalia lungo la strada dell’alternanza e di un compiuto bipolarismo.

In questi anni ci siamo impegnati a garantire quella profonda innovazione di cui il Paese aveva bisogno, quell’innovazione che il Pci non fu in grado di portare avanti in quegli anni. Ma sappiamo che il lavoro non è finito, che dobbiamo completare una transizione politica e istituzionale che dura da troppo tempo, un tempo che rischia – lo abbiamo visto dopo lesito del referendum – di dare spazio a chi coltiva tentazioni proporzionalistiche e disegni neocentristi, a chi vuole riportarci agli anni Ottanta, allepoca dei veti incrociati e della instabilità permanente.

L’idea di creare in questo Paese un sistema democratico di tipo europeo, una democrazia dellalternanza, in cui sia il voto dei cittadini a decidere chi governa, sta scritta nel nostro atto di nascita. Un atto a partire dal quale abbiamo sempre mantenuto – ecco il secondo pilastro di cui parlavo – la voglia di affermare una nuova idea della politica, l’idea di un partito che fosse il perno su cui costruire unalleanza più vasta, lo strumento per far vivere valori, idee, programmi.

Noi oggi siamo la più grande forza della sinistra italiana, siamo un partito della grande famiglia del socialismo europeo. Siamo una forza che sta mutando se stessa, sta definendosi come una sinistra capace di governare ma anche carica di ideali e di valori. Una sinistra che sente la rabbia e il disagio per le troppe ingiustizie che esistono e per i troppi diritti negati. Una sinistra che vuole sentirsi parte di un “nuovo internazionalismo”.

Ma siamo anche una forza aperta, centrale nella coalizione e nell’alleanza di centro-sinistra. E mentre in molti sembrano afflitti da una smania proporzionalistica che tende a esasperare le divisioni noi manteniamo la nostra cultura bipolare e maggioritaria. E la nostra forza ora è davvero una garanzia fondamentale per il rilancio delle ragioni dellintesa e dell’unità fra tutti i riformisti. Io infatti non mi rassegno ai rischi di distruzione dell’Ulivo, al rischio di trasformare il centro-sinistra in un puro decapartito.

Per questo, con pazienza e determinazione, ho lavorato e lavorerò per rilanciare la nostra coalizione, per far nascere un nuovo Ulivo. Non vorremmo che piccolezze, divisioni ed egoismi di oggi avessero un giorno l’effetto di consegnare l’Italia al Polo. Per noi l’alleanza dei riformisti rimane una scelta strategica. Enrico Berlinguer parlò qui a Padova quasi al termine di una lunga e difficile campagna elettorale per le elezioni europee. Anche l’Europa è molto cambiata in questi quindici anni. C’è l’Euro, e noi e i nostri figli non conosciamo più le frontiere che dividono un paese dall’altro. Queste elezioni europee, quindici anni dopo, si svolgono in un quadro diverso, e l’obiettivo che le attraversa è uno solo. Non certo quello di usare il voto per Bruxelles al fine di scardinare il governo italiano e di provocare un nuovo ciclo, che potrebbe essere davvero devastante, di instabilità politica. Berlusconi ha detto agli italiani che se voteranno per lui il Paese sarà costretto alle elezioni anticipate. E’ una minaccia impropria e velleitaria, credo davvero molto lontana dallo stato d’animo del Paese.

E’ la prova che Berlusconi è un vecchio uomo del proporzionale, incapace persino di ricordarsi che queste elezioni si svolgono con un altro sistema elettorale da quello delle politiche, che è maggioritario. E’ la prova che Berlusconi non fa nulla di diverso da quello che facevano i capi politici del pentapartito: ogni elezione era buona per una resa dei conti e per una crisi di governo. E’ comunque una ragione in più per andare a votare e per rispondere alla sfida che il capo di Forza Italia ha lanciato al nostro partito e al centro-sinistra.

Il 13 giugno dovremo stabilire, con il nostro voto, come sarà composta un’istituzione che avrà sempre più peso sulla vita dei cittadini europei. Dovremo stabilire se al suo interno avrà più voce una destra egoista, ancorata a vecchie e inadeguate ricette liberiste, oppure la sinistra democratica e riformista, le forze che portano avanti politiche basate sulla solidarietà e sull’inclusione, chi si batte per impedire la crescita delle diseguaglianze e l’estensione delle aree di povertà e di esclusione sociale, chi vuole garantire i principali diritti di cittadinanza a ogni donna e ogni uomo nato in questo continente o che ha scelto di venire a viverci e di crescere qui i propri figli.

Questa è la posta in gioco. Ed è per vincere questa sfida che lavoriamo insieme ai socialisti francesi, ai laburisti inglesi, ai socialdemocratici tedeschi. Perché noi possiamo dire, a differenza di molti altri, che la nostra collocazione è chiara. Perché pur muovendo da sensibilità diverse tutti noi abbiamo a cuore un’idea dell’Europa: un’area sempre più integrata sul piano economico, politico, sociale, culturale, ambientale, della sicurezza. Un’Europa politica, capace di operare per garantire lavoro e stabilità, in grado di aiutare i paesi poveri del mondo e di far sentire la sua voce in difesa dei diritti umani. Un’Europa delle persone, sempre più attraversata da sentimenti e da valori comuni, sempre più attenta a favorire l’innovazione, il dialogo tra le giovani generazioni.

Care compagne e cari compagni, proprio uno dei padri dell’Europa, Altiero Spinelli, sottolineò, poco dopo la sua morte, quanto fu attenta la presenza di Berlinguer allinterno del Parlamento europeo e quanto fu importante il suo intervento, nel settembre del 1983, a favore del nuovo progetto di trattato sull’Unione Europea. E raccontò di quando, ancora prima, mentre il progetto era solo una bozza scritta da un pugno di deputati e circondata da scetticismo generale, partì da Strasburgo per andare a Roma e chiedere a Berlinguer un’adesione che in qualche modo contribuisse a dare autorevolezza a quell’idea. La risposta fu semplicemente “è una battaglia giusta”, e fu seguita da una firma, che significò prendere un impegno che era anch’esso un segno di innovazione per un partito che non aveva votato l’adesione allo Sme.

Fino alla fine, perché è all’Europa, a quelle elezioni europee di quindici anni fa, che Enrico Berlinguer dedicò le sue ultime energie. Chi le ha viste non dimenticherà mai quelle immagini, quegli ultimi fotogrammi. Chi le ha ascoltate ricorderà sempre le sue parole, la parte finale di quel discorso, la lettura di quegli ultimi due fogli, scritti come sempre insieme a Tatò il giorno precedente, a notte fonda, l’unico momento che rimaneva disponibile dopo le tante iniziative. “E adesso – dice – ci attende l’ultima fatica, che bisogna compiere con l’impegno che sappiamo sempre dimostrare in tutti i momenti cruciali della vita politica italiana. Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia che per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra Italia“.

L’ultima fatica, caro Enrico, per te è stata questa, è stata riuscire a lasciarci nel cuore queste parole e negli occhi quelle immagini. Parole e immagini che sono partite da questa piazza e che si sono moltiplicate per mille, spargendosi in mille altre piazze, adagiandosi tra le nostre emozioni e i nostri sentimenti. Shakespeare ha scritto: “Quando morirà, prendilo e spezzalo in tante piccole stelle, ed egli renderà la volta del cielo così bella che il mondo intero amerà la notte e non adorerà l’abbagliante sole“.

Sappiamo, non da oggi, che non esiste, non deve esistere mai, un sole da adorare. Abbiamo imparato a muoverci con gradualità, passo dopo passo ma con andatura ferma, nella luce che ci è data dalla realtà del giorno. Abbiamo continuato, continuiamo, a lavorare, a cercare, a innovare. Perché sappiamo che rispetto a ieri sono cambiate tante cose, ma rimane il bisogno che la politica sia innanzi tutto passione, coraggio e capacità di seguire strade nuove.

Questi sono i principi e i valori che animano una politica capace di guardare lontano e di costruire il futuro. Questa è la nostra idea della politica. Questa è la politica dei Democratici di sinistra. Stasera qui ci sono tante persone che hanno voluto bene a Berlinguer. Tra tutti permettetemi di ricordare i compagni della sua scorta, che sono insieme, come una volta, partiti da Roma per essere qui. Loro erano qui quella sera.

Vedete, la vita di ciascuno di noi è segnata dai dolori, dalle gioie, dalle speranze e dagli amori che la vita ci consente di vivere. Il dolore di quella sera, di questa sera di quindici anni fa, lo porto ancora con me, ma per fortuna non è solo un dolore. E’ anche la voglia, il dovere di immaginare, progettare, proporre, quell’idea alta della politica che la vita e la morte di Berlinguer hanno raccontato a tutti noi.

Per questo siamo qui, per ricordare allItalia un grande italiano, Enrico Berlinguer.


Note sull’autore: Walter Veltroni è nato a Roma nel 1955. E’ stato Segretario Nazionale dei Democratici di Sinistra e Vicepresidente dell’Internazionale Socialista (1999-2001). Deputato, Parlamentare Europeo, negli anni Ottanta Dirigente del PCI, è stato fra i protagonisti della nascita del Partito Democratico della Sinistra nel 1991. Ha diretto “L’Unità” dal maggio 1992 all’aprile 1996, quando, dopo la vittoria elettorale dell’Ulivo, diventa Vicepresidente del Consiglio e Ministro dei Beni Culturali nel governo guidato da Romano Prodi. Dal 2001 è stato Sindaco di Roma, incarico che lascia alla vigilia delle politiche del 2008, quando viene candidato alla Presidenza del Consiglio dal Partito Democratico, di cui è stato il Segretario dal 14 ottobre 2007 al 17 febbraio 2009. Attualmente è membro della Commissione Anti-Mafia della Camera dei Deputati.

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