Per raccontare la sua «tenerezza» fu evocato Chagall

di Filippo Ceccarelli, La Stampa 4 giugno 2004


Fumava le Turmac, beveva whisky allungato con acqua, gli piacevano Fellini e Stockhausen.

FUMAVA le Turmac, sigarette piuttosto ricercate, da diva del cinema. Quando furono tolte dal mercato, a fatica si adattò alle Rothmans: sempre troppe, comunque. Beveva whisky allungato con acqua. Soffriva di gastrite, ma era goloso, una notte si prese una intossicazione di datteri mentre preparava una relazione per il Comitato Centrale. Si scriveva tutto da sé. Mai avrebbe concepito l’odierna figura del ghost-writer. Disponeva di un ufficio monacale: la scrivania, tre sedie, una foto di Gramsci, e basta. A volte lavorava a casa, in pantofole, sul tavolo rotondo del tinello, mentre le figlie gli giocavano intorno in tuta da ginnastica, e dalle finestre salivano i rumori di piazzale Ponte Milvio. Certe sere faceva zapping, senza conoscere né la parola né il concetto. «Ma non ha nemmeno la tv a colori!» si stupì Craxi. Gli piacevano i film di Fellini e la musica un po’ difficile, ad esempio il primo kontra-punkt di Stockhausen. Giocava abbastanza bene a biliardo, meno bene a boccette. Navigava pericolosamente a vela, tanto che un’estate rischiò di naufragare all’isola d’Elba. Ci fece poi dello spirito. Come capita a molte persone dall’aspetto tormentato e sofferente aveva un sorriso splendido. Veniva bene in tv: «il ritmo e il disegno simmetrico» delle sue mani impressionarono Mario Soldati. Non stava affatto male da solo. Un giorno, per una serie di equivoci tra partito e prefettura, se lo dimenticarono a Caprera, dove era giunto per le celebrazioni garibaldine. Aspettò, aspettò, e alla fine si mise a girare per i viottoli, con la borsa nera e la mazzetta di quotidiani sottobraccio. Disse poi: «Mi sembrava troppo bello per essere vero». Uno dei momenti più emozionanti della sua vita fu quando, ad Hanoi, si sentì chiedere da Ho Chi Minh come stava la Pietà di Michelangelo, martellata qualche mese prima da un ungherese pazzo. Nella camera ardente di Pasolini rimase a lungo in silenzio davanti alla bara: «Non dimenticherò mai l’intensità della sua faccia» ha confessato poi Laura Betti. Milioni di italiani lo ricordano in quella foto incredibile, travolto dall’allegria e addirittura preso in braccio da Roberto Benigni. Non salutava mai a pugno chiuso: considerava quel gesto «un segno d’ostilità». Fu duramente contestato in famiglia durante il movimento del Settantasette. Almeno un paio di suoi figli sfilavano con quelli che lui stesso, manzonianamente, aveva definito «untorelli». Ci soffrì parecchio.

Caduto il comunismo, travolta l’ideologia leninista, finito per sempre il pci, dimenticato il compromesso storico, superate le rigidità e le asprezze di quel tempo, a distanza ormai di vent’anni resta solo da chiedersi: com’era davvero Enrico Berlinguer? Quell’ultimo suo comizio, per dire, 7 giugno 1984: quel palco, quel malessere improvviso, le parole smozzicate, il fazzoletto sul volto e lui che continuava a parlare. Era arrivato a Padova già stravolto di stanchezza. Tour elettorale massacrante, veniva da Genova, era atteso a Milano, poi a Bologna, poi a Catania. Per la prima volta i collaboratori gli avevano affittato un aerotaxi. L’idea non gli era andata per niente a genio, l’aereo costava troppo, 8 milioni, s’era anche impuntato e solo alla fine l’avevano convinto che in quel modo, tra alberghi e spostamenti, il partito avrebbe risparmiato. Il partito. Per sua esplicita volontà Berlinguer non è sepolto, come Togliatti, Longo e Amendola, nel mausoleo comunista del Verano. Riposa nella tomba di famiglia a Prima Porta. Ancora oggi è difficile separare l’uomo dal Segretario Generale del pci; e impossibile, oltre che inutile ormai considerarlo, e come lui stesso si sentiva ai suoi tempi, depositario e interprete della Razionalità della Storia. Perché tutto oggi appare incostante e irregolare. Fu probabilmente il leader più austero e riservato della storia repubblicana. Non concedeva, come è oggi nella norma, battute per strada ai giornalisti. «Non amo le semplificazioni», ripeteva. Oppure: «Non faccio profezie». Insomma non rispondeva mai. Indimenticabile la volta in cui, pressato dai giornalisti, si chiuse nel più assoluto e caparbio mutismo. «Ma ci può dire almeno – chiese allora esaperato il corrispondente del New York Times – quanti anni ha?». E lui: «Credo che rivolgendosi all’ufficio stampa del partito ella potrà avere una mia biografia comprensiva dei dati anagrafici che desidera conoscere». Non per nulla lo chiamavano «il sardomuto».

E tuttavia quest’uomo così taciturno, così discreto, così introverso, finì per offrire al suo paese e al destino della politica la morte più «orribilmente pubblica» e al tempo stesso più tenera che sia dato di ricordare. Sembra ancora sul quel palco, Berlinguer, o sul balcone delle Botteghe Oscure, o per strada mostrando la prima pagina dell’Unità con il titolone: «Eccoci!»: «Il piccolo viso raggrinzito e il sorriso sofferente – come ha scritto Miriam Mafai in Botteghe Oscure, addio (Mondadori, 1996) – E a noi sembrò di vederlo alzarsi a volare come il piccolo suonatore di violino di Chagall che vola alto, sui tetti di Vitebsk, aggrappato al suo strumento». Ebbene: molto di Berlinguer è rimasto, al di là del suo ruolo e ben oltre i fallimenti ideologici e di strategia. Una grandezza di stile personale per certi versi irraggiungibile. Un ricordo che sfuma nel mito. Nessun uomo politico può vantare, come Enrico Berlinguer, tre bellissime biografie: quella di Vittorio Gorresio, pubblicata alla metà degli Anni Settanta, con il soggetto non solo vivente, ma anche trionfante (Feltrinelli); quella di Chiara Valentini, in due volumi pieni di fatti e di preziosi particolari (Mondadori); e quella infine di Peppino Fiori (Laterza), che lo conobbe e gli fu amico, biografia giustamente ripubblicata proprio in questi giorni. Proprio a Gorresio, a suo tempo straordinario osservatore e narratore del togliattismo ne “I carissimi nemici” (Longanesi, poi Bompiani), si deve la più compiuta e penetrante descrizione dell’uomo Berlinguer e soprattutto di quelle sue virtù che nei capi di oggi appaiono ormai completamente e drammaticamente estinte. E dunque: «Sobrio e severo, tenace e riservato, impenetrabile alle variazioni dei fatti e degli uomini e alle ondate della fortuna buona o cattiva… Eternamente senza fretta, non interrompe mai gli altri oratori. Non si eccita, non si appassiona, non gesticola né inveisce. Impassibile».

Ecco, questo ritratto, che rappresenta l’esatto contrario di quel che passa l’odierno convento della politica, spiega bene la sopravvivenza della leggenda berlingueriana. Rispetto alle sgangheratezze dell’attualità viene la tentazione di rivalutare la lettera con cui Paolo Spriano, lo storico ufficiale del partito, protestò contro quella storica vignetta di Forattini che aveva ritratto il segretario del pci come un molle borghese, brillantina in testa e tazza di tè in mano, mentre per le strade sfilavano i metalmeccanici: «Ma avete un’idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente come Berlinguer?». Era anche un aristocratico, un marchese. «Ma non si è mai curato di accertare e certificare – scrisse un giorno Fortebraccio – per quali vie e da quali lombi possano venirgli quarti di nobiltà». E se in pubblico rideva assai di rado, quando glielo facevano notare rispondeva con autentica meraviglia: «Che motivo ne avrei anche oggi?». Parlava difficile, Berlinguer: «Unità separata», «allargamento ristretto», «compromesso storico». Come Moro cercava disperatamente di aggirare con le parole i drammi geopolitici dell’Italia. «S’iscrisse giovanissimo alla direzione del pci» disse Pajetta. Ma ci lasciò anche la pelle. Allora funzionava così. Forse anche oggi, ma in un modo che sembra molto meno tragico, forse perché molto meno collettivo.

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