E Kissinger diceva di Berlinguer: “E’ lui il comunista più pericoloso”

di Filippo Ceccarelli, La Repubblica, 13 gennaio 2008
http://www.repubblica.it/2008/01/sezioni/politica/documenti-foreign-office-1/documenti-foreign-office-2/documenti-foreign-office-2.html


A tutti sembrava ormai imminente l’ingresso del Pci nel governo. Terrorizzati all’idea che un uomo del Pci potesse conoscere i segreti della Nato.

Per i laici l’ambasciatore Millard consulta Giovanni Spadolini. Lo trova piuttosto agitato: “È un sintomo grave che il presidente Moro abbia convocato Berlinguer a Palazzo Chigi prima del Consiglio dei ministri. Così ora i comunisti fanno virtualmente parte della maggioranza, ma non sono più in grado di dare ordini alla classe operaia. Per farlo – scherza, ma non troppo Spadolini – avrebbero bisogno dell’Armata rossa”. E comunque: “Il Pci è ormai parte integrante del sistema politico, che sta andando a pezzi. L’unica speranza è che sia contaminato dal potere come gli altri partiti”. Parla da intellettuale, ma anche come ex ministro (dei Beni culturali, nel dicastero Moro-La Malfa): “La polizia è insoddisfatta e il quaranta per cento degli agenti sarebbe pronto a partecipare a un colpo di stato di sinistra. I carabinieri invece sono molto più affidabili”. Commento di Millard: “Si percepisce un clima di profonda depressione, quasi di disperazione, per non dire di panico”.

Il tempo stringe, è la formula che risuona nei documenti britannici. A Londra Henry Kissinger incontra il nuovo ministro degli Esteri di Sua Maestà, Antony Crosland. Da parte americana si avverte un indubbio nervosismo: “La questione dell’obbedienza del Pci a Mosca è secondaria. Per la coesione dell’occidente – è ora la tesi di Kissinger – i comunisti come Berlinguer sono più pericolosi del portoghese Cunhal”. Ribatte Crosland: “Il Pci non avrebbe il prestigio di cui gode se gli altri partiti italiani non fossero messi così male. Ma vi sono segni di decadenza anche tra i comunisti, corruzione, come nel caso di Parma”. E francamente colpisce che leader così potenti si abbassino a parlare di un piccolo scandalo edilizio che nell’autunno del 1975 coinvolse l’amministrazione rossa della città emiliana. La risposta di Kissinger, comunque, sembra stizzita: “Sembrano tutti ipnotizzati dai successi del Pci, senza avere idea di cosa fare per bloccarne l’ascesa”.

Il 13 aprile un gruppo di specialisti del Western European Department del Foreign Office elabora un dossier che ha proprio il compito di stabilire la strategia operativa anticomunista, graduandone le mosse a seconda dei vari scenari. La prima parte è dedicata appunto a come impedire che il Pci vada al governo e sono indicati i vari passi da compiere: finanziamento degli altri partiti, orchestrazione di campagne stampa sul pericolo, attacco alla credibilità delle Botteghe Oscure, moniti ai sovietici.

Nella seconda parte il documento offre delle soluzioni per così dire pratiche nel caso il Pci sia già riuscito a conquistare una quota di potere, cioè sia già andato al governo. A questo punto gli scenari sono cinque, e cinque di conseguenza le options, ciascuna esaminata a seconda dei vantaggi e degli svantaggi. La linea più morbida è definita “Business as usual” e prevede di “continuare le relazioni come se nulla fosse cambiato”. Seguono, in ordine di gravità, “misure di ordine pratico-amministrativo” per “salvaguardare i segreti e i processi decisionali dell’Alleanza atlantica”. Come ulteriore scelta, sempre rispetto all’Italia, gli inglesi si riservano di mettere in atto una “persuasione di tipo economico” che si traduce in una serie di pressioni anche sul piano della Comunità europea e del Fondo monetario internazionale. Entrerebbero in gioco, in quel caso, posti di potere in tali organismi, benefici, prestiti. “Occorre comunque precisare – si legge – che tali misure cesserebbero se il Pci abbandonasse il governo”.

La option number four ha un titolo che, anche in lingua inglese, non è che suoni proprio tranquillizzante: “Subversive or military intervention against the Pci”. Ecco come comincia: “Questa opzione copre una serie di possibilità: dalle operazioni di basso profilo al supporto attivo delle forze democratiche (finanziario o di altro tipo) con l’obiettivo di dirigere un intervento a sostegno di un colpo di Stato incoraggiato dall’esterno”. Vantaggi: “Tali misure possono aiutare a rimuovere il Pci dal governo”. Svantaggi: “Vi sono immense difficoltà pratiche per portare a compimento questo tipo di operazione. Vista la situazione italiana, è estremamente improbabile che un’operazione coperta rimanga segreta a lungo. La sua rivelazione può danneggiare gli interessi dell’occidente e aiutare il Pci a giustificare in maniera più decisa il suo controllo sulla macchina del governo. Inoltre, la pubblica opinione dei paesi occidentali potrebbe prenderla male col risultato di creare tensioni all’interno della Nato, soprattutto fra Usa e alleati europei, nel caso gli americani assumano il comando dell’iniziativa”. E conclude: “Anche se l’intervento esterno servisse a rimuovere il Pci dal potere, la situazione politica italiana rimarrebbe instabile, rafforzando così l’influenza comunista e quella dell’Urss sul lungo periodo”.

L’ultima opzione prevede, seccamente, “l’espulsione dell’Italia dalla Nato”. Vantaggi: “Si tutelano i segreti e si elimina la possibilità che l’Italia comprometta l’alleanza dall’interno”. Ma in questo caso, secondo gli analisti del Fco, si arriverebbe alla “chiusura di tutte le basi nel paese, destinato a diventare neutrale con un orientamento verso l’occidente. Ma l’Italia potrebbe anche evolversi in una sorta di Yugoslavia. Al limite, potrebbe anche offrire agevolazioni di tipo militare all’Urss in cambio di denaro”. In ogni caso, conclude il dossier, “si renderebbe necessaria una revisione della strategia difensiva della Nato sul fianco Sud. La Sesta Flotta ne sarebbe danneggiata. Grecia e Turchia potrebbero chiedersi se valga la pena continuare a far parte dell’alleanza. Potrebbe anche essere compromessa la capacità americana di intervenire in Medio Oriente e di influenzare quei paesi a livello politico. Di conseguenza, il ritiro dell’Italia dalla Nato si trasformerebbe di fatto in una sconfitta dell’occidente di fronte al mondo intero”.

Dopo tanto tempo viene da chiedersi, e pure con un certo sgomento, se e in che misura nel 1976 gli italiani fossero consapevoli dei rischi che correvano. Si ha qualche scrupolo a montare un caso di golpismo postumo, per giunta irrealizzato. Eppure, c’è da dire che mai come allora l’idea stessa del golpe, la minaccia di golpe, le voci di golpe, la vigilanza e l’autodifesa in caso di golpe, erano entrate da tempo nell’immaginario politico.

C’era stata la Grecia (1967) e poi il Cile (1973); e qui il “Piano Solo” del generale col monocolo, Giovanni De Lorenzo (1964), il tentativo del “Principe nero” Junio Valerio Borghese (1970) e la Rosa dei Venti (1974). Circolavano anche film (Colpo di Stato di Salce e l’indimenticabile Vogliamo i colonnelli di Monicelli) e perfino barzellette: “Dicono a De Martino: “Sono arrivati i carriarmati”, e quello: “Bene, e a noi socialisti quanti ce ne toccano?””). Umorismo in verità raffreddato dalle tante, troppe stragi di quegli anni: Piazza Fontana, Reggio Calabria, Peteano, Piazza della Loggia, Italicus.

Alla metà degli anni Settanta i capi comunisti sono prudenti e qualche volta dormono fuori casa: “Non ci prenderanno a letto”, garantisce Pajetta. Ogni tanto qualche capo democristiano, ad esempio Moro, se ne esce con criptiche denunce tipo: “Sta prendendo corpo un torbido disegno eversivo”. Ogni tanto finisce in prigione qualche generale dei servizi segreti, accusato di cospirazione politica e insurrezione armata: proprio nel febbraio del 1976 tocca al generale Gianadelio Maletti, mentre a maggio la magistratura di Torino chiede l’arresto di Edgardo Sogno, figura di spicco della Resistenza non comunista, poi divenuto così acceso anticomunista da farsi ispiratore di un golpe detto “bianco”, para-legalitario. Scrive Pier Paolo Pasolini nell’articolo sulle lucciole, la cui scomparsa nelle campagne definiva poeticamente la grande mutazione antropologica degli italiani: “È probabile che il vuoto di potere stia già riempiendosi attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione. Ne è un indice ad esempio l’attesa “morbosa” del colpo di Stato”.

Perché si potrà anche sorridere di questa strisciante mitomania golpistica, dietrologica e pistarola; così come del comandante della Guardia Forestale Berti, con il suo spadone, che nella notte dell’Immacolata Concezione, da Cittaducale, provincia di Rieti, si lancia alla conquista del Viminale. Ma assai meno viene da sorridere leggendo il rapporto top-secret inviato a Londra dall’addetto militare dell’ambasciata britannica a Roma, colonnello Madsen, un mese esatto prima delle elezioni del 20 giugno. Titolo: “La reazione delle forze armate italiane alla partecipazione comunista al governo e l’effetto che essa può avere sul contributo dell’Italia alla Nato”. Sono undici pagine fitte e dettagliatissime, dai piani di ristrutturazione appoggiati dal Pci al movimento dei “proletari in divisa” organizzato da Lotta continua. E di nuovo le conclusioni dell’indagine vanno a parare sul colpo di Stato: “Gli ufficiali delle Forze armate sono per la maggior parte di destra o di estrema destra. Tuttavia i soldati di leva riflettono le inclinazioni politiche tipiche dell’Italia attuale. In teoria, se non in pratica, il Pci potrebbe contare sul sostegno di un terzo delle Forze armate. Una eccezione importante è costituita dai Carabinieri, ottantaseimila uomini tra i quali il Pci non ha appoggi. Ma i Carabinieri sono tradizionalmente leali al governo, qualunque sia il suo colore politico”.

Rispetto all’ipotesi di un governo con i comunisti, sostiene il colonnello che “il sentimento degli ufficiali è generalmente di preoccupazione. È difficile individuare nelle Forze armate un nucleo abbastanza forte o influente da promuovere un golpe. L’unica possibile eccezione è quella dei Carabinieri. Nell’attuale situazione è improbabile che i militari lo appoggino. Tuttavia potrebbe in breve crearsi una situazione tale da favorire un putsch militare “per l’ordine pubblico”, soprattutto se i risultati delle elezioni del 20 giugno generassero una situazione di incertezza politica”. La premessa è che si tratta di uno “scenario ipotetico”. Ma al tempo stesso il colonnello Madsen segnala al suo ministro della Difesa che “nei piani di ristrutturazione, le forze armate italiane hanno di recente rafforzato le formazioni territoriali e quelle dei parà con l’obiettivo di condurre operazioni di salvaguardia della sicurezza nazionale, nel caso venga meno l’ordine pubblico”.

Beato il paese che non ha paura del proprio passato. E che in nome della democrazia e della trasparenza apre regolarmente i suoi archivi a studiosi, appassionati e gente comune. Detto questo, a rileggere queste carte, si resta colpiti da un dubbio: meritava, l’Italia, la società italiana, di essere sorvegliata in quel modo? Come una repubblica delle banane in mezzo al Mediterraneo? Torna alla memoria quel 1976: “E l’Italia giocava alle carte/ e parlava di calcio nei bar” come ne La presa del potere di Gaber. Si resta un po’ interdetti fronte a certe canzoni di allora: “E la Cia ci spia – questo è un Finardi d’annata – e non vuole più andare via”. L’Italia degli scioperi, della guerriglia urbana, dell’austerità, della disoccupazione, dell’inflazione, dei mini-assegni al posto degli spiccioli. Parco Lambro e Porci con le ali. Ma anche l’Italia del boom di Benetton, del femminismo, della nascita di Repubblica e delle radio libere, degli ultimi Caroselli e dell’arrivo in tv della banda di Renzo Arbore, con Roberto Benigni improbabile critico cinematografico la domenica pomeriggio. E Gimondi, Panatta, la Ferrari di Niki Lauda. E il terremoto del Friuli, i matrimoni che diminuivano, Gheddafi nella Fiat, le Br che cominciano ad uccidere, il giudice Coco, a Genova, l’8 giugno 1976. Mai che le carte inglesi facciano riferimento al terrorismo rosso e nero di quella stagione di piombo.

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