Il cuore europeo di Berlinguer

di Silvio Pons, l’Unità 28 maggio 2004


Una comprensione del ruolo e dell’azione di Enrico Berlinguer risulta impossibile se ci si limita alla vicenda nazionale. Questa affermazione non rimanda soltanto a un richiamo metodologico, tanto ovvio quanto spesso ignorato nei fatti, da applicare a qualsiasi protagonista della storia repubblicana. È infatti esistita una specificità di Berlinguer, che ha reso decisivo il suo rapporto con la politica internazionale. Egli fu l’artefice di una politica estera del Pci, senza la quale il lancio dell’eurocomunismo e la proposta del «compromesso storico» non avrebbero avuto sufficiente credibilità.

I cardini di tale politica estera furono la visione della distensione europea come un processo strettamente collegato, ma distinto dalla distensione bipolare; il lancio di un «europeismo» dei comunisti italiani, volto a consolidare un giudizio positivo sulle conseguenze economiche e sulle istituzioni dell’integrazione europea, nonché a richiederne un ampliamento politico; il riconoscimento delle alleanze politico-militari dell’Italia e l’idea che un futuro «superamento dei blocchi» potesse nascere soltanto dalla presa d’atto della loro esistenza e dalla ripresa di un ruolo dei soggetti politici europei. Attorno alla formulazione di questa politica, che non rinnegava ma affiancava il tradizionale motivo dell’anti-imperialismo, si creò un sostanziale consenso nel gruppo dirigente comunista italiano, destinato a rappresentare anzi il suo principale punto di coagulo e a durare fino alla morte di Berlinguer. Il sostegno ai processi di integrazione europea nel contesto della distensione tra i due blocchi costituì il passaggio per un accostamento del Pci alle forze della sinistra europea e per la formulazione di un’appropriata concezione dell’interesse nazionale.

Vanno indicate tre fonti di questa politica. Primo, il sincronismo che si stabilì alla fine degli anni Sessanta tra il dissenso manifestato dai comunisti italiani dinanzi all’invasione sovietica della Cecoslovacchia e il loro sostegno alla Ostpolitik di Willy Brandt. Secondo, l’interdipendenza tra la scelta del Pci in favore dell’integrazione europea e il tentativo di costruire un polo comunista occidentale, che portò alla nascita dell’eurocomunismo. Terzo, la rimozione della contraddizione tra europeismo e anti-atlantismo, che liquidò la poco credibile contrapposizione tra Comunità europea e Nato: questa deve anzi essere considerata una delle principali acquisizioni della leadership di Berlinguer, anche se non scioglieva il nodo culturale dell’anti-americanismo.

Berlinguer realizzò così un distacco del principale partito comunista occidentale dal «campo socialista», cioè dal sistema di relazioni transanazionali dominato dall’Urss. Egli mantenne una consonanza con la politica favorevole alla distensione propugnata da Breznev, ma sviluppò una concezione diversa e anche conflittuale con quella sovietica. Il nesso tra la difesa della Primavera di Praga e la distensione europea implicava un rovesciamento della visione sovietica, incentrata all’opposto sull’idea che proprio la repressione delle tendenze centrifughe nella propria sfera d’influenza costituisse la condizione primaria per la distensione bipolare. La vera radice politica della separazione tra il Pci di Berlinguer e l’Urss fu l’europeismo dei comunisti italiani e il suo corollario della costruzione di un polo comunista occidentale. Ciò presentava agli occhi dei sovietici l’aspetto di un possibile scisma gravido di pericoli perché prefigurava un’incontrollabile modifica degli assetti politici della guerra fredda, e una probabile attrazione sui paesi satellite di Mosca nell’Europa centro-orientale. Così l’ostilità di Mosca verso le prospettive di governo del Pci non si dimostrò inferiore a quella di Washington: fu invece un fattore convergente con il veto americano a qualunque ipotesi di questo genere, rivelando il comune timore che l’eurocomunismo indebolisse la divisione dei confini geopolitici in Europa.

I cruciali eventi internazionali verificatisi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo costituirono il test fondamentale della separazione del comunismo italiano da quello sovietico. Anche se la crisi degli euromissili nel 1979 sembrò riportare una certa consonanza, Berlinguer reagì con coerenza prima all’invasione dell’Afghanistan e poi alla crisi polacca. Al momento del golpe militare in Polonia, nel dicembre 1981, la sua dura condanna gli procurò il primo attacco pubblico da parte sovietica, che passò alle cronache come lo «strappo» tra il Pci e l’Urss. Così il patrimonio autonomo accumulato dal Pci nel decennio precedente mostrò la sua consistenza: la fine della distensione non provocò un ripiegamento verso gli schieramenti e le appartenenze tradizionali.

Tuttavia, la trama delle relazioni tra il Pci di Berlinguer e l’Urss deve essere letta anche in controluce. Essa non narra soltanto la storia di una separazione, ma anche quella di un divorzio mancato. Berlinguer fu sempre contrario all’idea di creare una nuova eresia nel mondo comunista. Egli riteneva che ciò avrebbe indebolito il Pci e il suo ruolo volto ad aprire la strada a una riforma del comunismo sovietico. E che questa riforma sarebbe andata di pari passo al graduale sviluppo della distensione. Al tempo stesso, sopravvalutò le potenzialità di mutamento della distensione. Berlinguer pensò che fosse possibile un ripristino del sistema internazionale della coalizione antifascista, in vigore alla fine della seconda guerra mondiale. Se ciò fosse stato vero, si sarebbe creata una coerenza tra il sistema internazionale e la nascita di governi di coalizione analoghi, nelle loro componenti politiche principali, a quelli dell’epoca. In altre parole, la reciproca legittimazione tra i due blocchi avrebbe sgombrato il terreno dalla questione della legittimità dei comunisti a governare un paese occidentale come l’Italia, ripristinando una situazione originaria che era stata alterata dalla guerra fredda. Tale ottica, tuttavia, aggirava il problema della legittimazione a governare, considerandolo soltanto un espediente creato artificiosamente dalle classi dirigenti occidentali, e rivelava un’incomprensione dei limiti della distensione.

La radice principale della difficoltà di Berlinguer di fare i conti fino in fondo con l’eredità del legame sovietico e con le compatibilità del sistema della guerra fredda va probabilmente indicata nella necessità di mettere un argine alla trasformazione dell’identità del Pci e di evitare una sua «socialdemocratizzazione». Di fatto, malgrado la sintonia con la socialdemocrazia tedesca, la visione internazionale del Pci continuò a essere sorretta da assiomi che impedivano una convergenza strategica con le principali forze della sinistra europea. Restava un pregiudizio negativo sulla politica americana, confrontata con quella sovietica, che fu anzi acuito dalla crociata anti-totalitaria del Presidente Reagan. I comunisti italiani attribuirono acriticamente agli Stati Uniti tutte le responsabilità della fine della distensione, esprimendo un giudizio ampiamente assolutorio nei confronti dell’Urss. Ormai sgretolati i pilastri del mito sovietico, a cominciare da quello della «superiorità» intrinseca del sistema sovietico su quello capitalistico, la cultura politica del Pci continuò a nutrirsi di aspettative, sia pure ridimensionate, verso l’Unione Sovietica. Se non era più la realtà del comunismo sovietico a costituire un riferimento, lo era l’idea di un suo potenziale inespresso, che per potersi dispiegare richiedeva una riforma. L’ambizione era che il comunismo occidentale promuovesse un nuovo socialismo europeo assumendo una funzione di leadership nei confronti dell’arretrata esperienza sovietica, che avrebbe comunque presentato una sua dignità in chiave anticapitalistica e anticonsumistica. L’aspettativa che si aprisse un nuovo corso di riforme nel socialismo reale diveniva una fede nella sua «riformabilità», e implicava un giudizio inadeguato circa la natura del sistema sovietico e la profondità della sua crisi.

La prospettiva del comunismo riformatore, fatta propria da Berlinguer, non era priva di una seria motivazione. La matrice comunista sovietica aveva generato nel corso del secolo tendenze assai diverse tra loro in diverse aree del mondo. Il carattere unitario del fenomeno era stato messo in discussione da rotture ideologiche e nazionali, prima fra tutte quella tra Urss e Cina. La «primavera di Praga» costituì un momento storico di evoluzione e di riconoscimento tra le tendenze che aspiravano a un cambiamento, e l’ingresso dei carri armati sovietici in Cecoslovacchia fornì loro un’identità, sia pure tenue e minoritaria. Nel contempo, il declino dell’immagine del comunismo sovietico in Europa divenne rapidamente un elemento di senso comune sulla spinta degli eventi e dei movimenti del 1968 all’Est e all’Ovest. Berlinguer esercitò la propria azione politica in un mondo in cui non era più possibile predicare semplicemente il valore dell’unità del movimento comunista e affidarsi all’idea di una sua forza espansiva, come aveva fatto Togliatti nel Memoriale di Jalta. Egli avvertì che la tradizione comunista si confrontava ormai con un dilemma identitario e ritenne che quella tradizione fosse dotata delle risorse politiche e culturali per farvi fronte.

Non tutto era illusorio in questa visione, ma in gran parte doveva rivelarsi tale. Poco dopo la morte di Berlinguer, l’avvento al potere di Gorbacev in Urss rivelò la presenza di aspirazioni riformatrici soggettivamente esistenti nel mondo comunista e riscattò a posteriori le speranze che i comunisti italiani avevano a lungo nutrito, di stimolare idee di cambiamento nelle classi dirigenti dell’Europa centro-orientale e dell’Urss. Sotto questo profilo, l’eurocomunismo del Pci ci appare uno dei fattori che contribuirono a modificare l’ambiente della guerra fredda in Europa, contestando un rigido ordine dicotomico che non corrispondeva più alla realtà delle cose e che era divenuto un baluardo del comunismo sovietico. Ciò significa che il messaggio politico lanciato dall’eurocomunismo fu parte di quel complesso di soggetti e di eventi che ebbero un ruolo attivo nel porre fine alla guerra fredda.

Tuttavia questo ruolo scontò anche un limite preciso. L’esperienza della perestrojka doveva soprattutto gettare luce sull’inadeguatezza delle risorse politiche e culturali per un’autoriforma del comunismo, che finì per segnare il destino fallimentare di Gorbacev. In realtà, le illusioni del comunismo riformatore potevano già essere colte quando Berlinguer era in vita. All’inizio degli anni Ottanta, l’emergere di un movimento anticomunista di massa in Polonia mostrò che il tempo storico delle «riforme dall’alto» promosse dalle classi dirigenti dell’Est rischiava di scadere prima ancora di essere davvero arrivato e fornì il modello di un cambiamento «dal basso» che avrebbe caratterizzato le «rivoluzioni di velluto» alla fine del decennio. Nell’altra metà del continente, l’eurocomunismo non aveva fatto proseliti e la sua spinta propulsiva si era esaurita senza generare un movimento politico degno di questo nome, identificabile con una «tradizione riformatrice» interna al comunismo: il suo fallimento significava anzi la marginalizzazione dell’ultima cultura politica organizzata che si qualificava in Europa occidentale come l’erede del socialismo rivoluzionario. Malgrado le sue ambizioni egemoniche, il progetto di Berlinguer mostrava così, più modestamente, il volto di un comunismo nazionale che aveva spinto all’estremo le proprie peculiarità e mantenuto una sua vitale ragion d’essere, adattandosi al mutamento civile e sociale post-1968.

Il testo integrale della relazione è pubblicato su Italianieuropei 32004

Lascia un commento