Le vere svolte? Le aveva già fatte Berlinguer

di Luciano Canfora (1998)


Non credo che la rimozione, in atto nel Pds, della figura di Berlinguer pertenga precipuamente alla accanita volontà, dominante in quel partito, di cancellare le tracce del proprio passato comunista, peraltro vistose. Pertiene piuttosto – e perciò è fenomeno esploso in questi ultimi tempi – all’evidente sforzo di prendere le distanze da “mani pulite” in vista di una strategia di medio periodo di intesa con Forza Italia e rottura a sinistra. Per Forza Italia la liquidazione della importante esperienza di “mani pulite” è essenziale, direi quasi vitale; e perciò il vertice attuale del Pds gioca la carta alquanto sgualcita della presa di distanze dal pool milanese e da tutto quanto la sua azione ha rappresentato.

Gesto politicamente azzardato quello del Pds, perché tra l’altro “regala” alla cosiddetta destra “pulita” (minoritaria anche in An) la carta propagandistica di potersi richiamare – unica nel panorama politico italiano – al lavoro di pulizia e di lotta alla corruzione condotto per anni dalla magistratura di Milano. Una svolta del genere impone il ridimensionamento di Berlinguer, che dello slogan “mani pulite” fu l’artefice fortunato: con esso vinse le amministrative del 1975 e le politiche del 1976. La “diversità” comunista rivendicata da Berlinguer si raccoglieva essenzialmente nel modo di porsi di fronte alla questione morale.

Questa “diversità” è oggi aborrita da un partito (il Pds) che, nei suoi vertici, si è convertito all’idea della “normalità”: un paese normale, una giustizia normale, una polizia normale. Ed è evidente che la normalità è parola d’ordine antipodica rispetto alla diversità.

Stranamente non viene valorizzato – oggi, dal Pds – un altro aspetto di Berlinguer: e cioè la sua scelta di campo in politica estera, sancita con una celebre ed impegnativa intervista al Corriere della sera il 15 giugno 1976. Quella intervista ha una curiosa storia. Il testo integrale apparve sul Corriere, ma i suoi concetti più dirompenti (e che fecero a lugno scalpore) non furono offerti in integro ai lettori de L’Unità. O meglio lo furono, ma di ritorno e con grande ritardo.

Cosa diceva Berlinguer? Alla domanda: «Non teme che Mosca faccia fare a Berlinguer e al suo eurocomunismo la stessa fine di Dubcek?», Berlinguer rispondeva: «No. Noi siamo in un’altra area del mondo. E ammesso che ce ne sia la voglia, non c’è la minima possibilità che la nostra via al socialismo possa essere ostacolata o condizionata dall’Urss». E ancora: «Lei dunque si sente più tranquillo proprio perché sta nell’area occidentale?». Berlinguer «Io sento che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vita c’è assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento». E infine: «Insomma – chiede l’intervistatore – il Patto Atlantico può essere anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà?». Berlinguer: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo, e non solo perché una nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia».

E’ molto singolare che il politico, Berlinguer, che poco più di due anni prima aveva elaborato la strategia del “compromesso storico” come risposta alle minacce che vedeva gravare sull’Italia alla luce dell’esperienza cilena (golpe americano per interposti generali), e che non era certo ignaro delle matrice Nato del Golpe dei colonnelli in Grecia (1967), e che forse ben conosceva quanto di allarmante ci fosse nelle verità che man mano affioravano sulla strategia della tensione in Italia (piazza della Loggia era di appena due anni prima), dicesse con tanta nettezza: «Mi sento più sicuro stando di qua». Inutile dire che un colpo mortale a tale sensazione di sicurezza dovette venire – immaginiamo anche in Berlinguer – dopo il sequestro e la liquidazione del solo politico democristiano in cui Berlinguer aveva trovato la sua “sponda”. Appena una ventina di mesi dopo l’intervista del «Mi sento più sicuro stando di qua».

Perché dunque il Pds, che – nei suoi vertici – è fortemente orientato verso l’assimilazione piena dell’orizzonte etico-politico-mentale occidentale (sin dall’invio di Cocciolone nel Golfo), e che considera l’Alleanza Atlantica il proprio naturale habitat, perché dunque questo vertice Pds non innalza monumenti a quel Berlinguer?

La spiegazione è – credo – piuttosto semplice. Quel Berlinguer aveva già compiuto, e proclamato in modo solenne e insistito, quel percorso che la cosiddetta svolta occhettiana dell’89 – ’90 pretende di aver inaugurato e perseguito. Dare atto a Berlinguer di quella scelta (buona o cattiva che fosse, lungimirante o meno che fosse) significherebbe dimostrare il carattere tautologico e politicamente pasticciato dell’operazione «cambio del nome» e «nascita della Cosa». Tanto pasticciato e improvvisato che oggi il Pds è ancora alle prese con la propria identità, ed è diviso tra chi vuol farne un partito a denominazione socialdemocratica (ciò che il Pci di Berlinguer già era, e con onore) e chi vuol farne un partito clintoniano (non sapendo oltre tutto, questi ultimi, che i partiti negli Stati Uniti sono tutt’altra cosa che in Europa occidentale).

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