Un Uomo Nostro

di Alessandro Natta 1985


“La nostra via al socialismo scaturisce innanzitutto dalla nostra storia nazionale e aderisce alle nostre condizioni nazionali…. Siamo pienamente impegnati per affermare il carattere laico del nostro partito e della nostra lotta, per far avanzare nelle nostre file e tra milioni di donne e di uomini la conoscenza della realtà e il senso dei processi storici come travaglio complesso, intricato, contraddittorio. Ma questa visione realistica e critica del volgere della storia non ci porta certo a ridurre la nostra battaglia alla semplice correzione dei mali dell’assetto sociale esistente. Ci liberiamo dai miti, ma non cadiamo in un piatto empirismo. E tendiamo ad impegnarci con tutte le nostre energie nella lotta per la vittoria di una causa che ha in sé gli ideali ed i valori più positivi i per la società e per I’uomo. Questa concezione critica, scientifica e, al tempo stesso, di ampio respiro ideale è propria della tradizione più feconda e originale del marxismo e del movimento operaio in ltalia. Essa ha il suo punto di riferimento iniziale nella speculazione teorica e nell’insegnamento politico di Antonio Labriola, che ha compiuto una grande opera per liberare il movimento operaio e il pensiero marxista dalle deformazioni del positivismo e del determinismo. Successivamente Gramsci e Togliatti, continuando I’opera di Labriola e mettendo a frutto con genialità la lezione di Lenin, ci hanno educato a comprendere in modo nuovo la nostra storia nazionale, e a saperci confrontare con le tradizioni migliori e con le correnti più vive della cultura italiana, europea e mondiale, a pensare e a lavorare per una nuova strategia della rivoluzione in Italia e in occidente e a saper organizzare un partito comunista di tipo nuovo, valido strumento di questa strategia… Tutte le nostre proposte, tutte le nostre lotte e le stesse nostre polemiche rendono e debbono tendere ad affermare il principio, il metodo e la pratica dell’unità … “

Adesso non ricordo bene se fu al XIV o al XV congresso che Berlinguer fece quelle affermazioni che ho riportato nel lungo distico di apertura. Se mi soffermo sulla visione nazionale e sul metodo unitario quali criteri guida seguiti da Berlinguer nell’ affrontare ogni genere di questioni e richiamando continuamente il partito all’osservanza di essi, è perché mi pare che questa duplice impronta del suo pensiero e della sua opera è talvolta rimasta un po’ in ombra.

Fare i conti con tutta la nostra storia nazionale e dimostrare che essa, giunta al suo termine odierno, ha nella classe operaia, nei lavoratori, nelle masse popolari unite la nuova classe nazionale («classe generale» aveva detto Marx), cioè la classe dirigente, la classe di governo del proprio paese, è insegnamento che a Berlinguer, a noi, ai comunisti italiani era venuto dal Gramsci dei «Quaderni», dal Togliatti della linea di Salerno e della Costituente. Così come ci era venuta da essi la lezione antisettaria. la lezione – che è poi antica verità storica – per la quale qualsiasi rivoluzione, per vincere e riuscire stabilmente, ha bisogno dell’unità dell’ampio coinvolgimento di un insieme di forze diverse, che siano conquistate e che divengano alleate, partecipi e coprotagoniste della lotta e dell’opera di trasformazione e di avanzamento.

Quali forze, quali ceti, quali partiti nell’Italia della guerra di liberazione e post fascista? Quali le «forze motrici»? E’ difficile negare – anche se qualcuno oggi vi si prova – che dalla caduta del regime delle camicie nere e con l’inizio della Resistenza lo Stato italiano (pur conservando nelle sue strutture tanti elementi derivanti dalla tradizione liberal borghese e dal passato fascista) cessò di avere alla sua base le vecchie forze politiche e sociali che incarnavano quella tradizione e quel passato. II nuovo Stato repubblicano e democratico nasce infatti avendo a fondamento quelle forze proletarie e lavoratrici della città e della campagna, quelle masse popolari comuniste, socialiste, cristiane, quei partiti democratici e antifascisti di matrice marxista, di derivazione laica e risorgimentale, di ispirazione cristiana (il Partito comunista, il Partito socialista, il Partito repubblicano, il Partito d’azione, il Partito democratico cristiano) che erano stati esclusi, estromessi dalla fondazione e costruzione dello Stato unitario e dalla sua vita successiva per oltre ottant’anni. Le sorti del paese dunque, nella sostanza, passano di mano: ecco il rivolgimento profondissimo, di portata storica, che avvenne quarant’anni fa – e alle radici stesse dello Stato e delle istituzioni – con il crollo del fascismo e con il moto unitario della Resistenza che lo spazzò via.

Le forze trasformatrici storicamente cambiano, sono cambiate.

E il loro compito non è solo di spazzar via ciò che del passato deve perire, e di ricostruire facendo fronte ad un’eredità che è fatta di errori da correggere, misfatti da riparare, ingiustizie da sanare, obiettivi mancati da raggiungere, vuoti da colmare; il compito è anche di preservare valori generali e nazionali della storia del popolo e della nazione. Solo che, per preservarli, quei valori vanno vissuti, inverati e fatti rivivere dalla nuova classe nazionale, insieme a quelli nuovi di cui essa è portatrice, in forme concrete e diverse da quelle in cui essi vivevano nel passato, le quali, non a caso, hanno meritato di morire. Questo modo unitario comprensivo e non manicheo di guardare al processo storico italiano (e non solo italiano) è patrimonio peculiare del nostro partito, e di esso Berlinguer è stato non solo custode fedele ma interprete innovativo nelle più diverse e difficili circostanze.

Si dice «valori». Per valori io credo si debba intendere principii, ideali, sentimenti, finalità. Ebbene, valori come la libertà e la democrazia; l’indipendenza, la sovranità, l’unità politica e morale della nazione; la sovranità popolare e la distinzione e divisione dei poteri: la certezza del diritto e l’uguaglianza di fronte alla legge; la giustizia sociale e l’efficienza del processo economico e produttivo; la solidarietà e il rispetto della persona; la serenità della convivenza civile e la pace, fanno parte permanentemente del patrimonio politico e ideale (sono quelli che Togliatti chiamava i «beni sostanziali») di una comunità nazionale ordinata, evoluta, giusta, quali che siano la profondità e l’estensione dei mutamenti che in essa vengono prodotti per impulso nostro e dall’andamento stesso – dalle improvvisazioni – del processo storico. Così si può intendere correttamente, e si spiega, perché Berlinguer potè dire, a giusta ragione, che noi comunisti italiani sappiamo essere a un tempo «conservatori e rivoluzionari». Nei quindici anni durante i quali è stato vice segretario e poi segretario generale del partito (e non soltanto nel corso di essi) Enrico Berlinguer è stato «banditore» – per dirla con le parole di Gramsci – di una rivoluzione intellettuale e morale che, protesa a innovare, non smarrì mai il filo del processo storico del paese e del partito, e non si separò mai da ciò che di positivo hanno lasciato le generazioni precedenti, non ignorò la varietà dei filoni culturali presenti in Italia, le diverse correnti che avevano tradizioni vitali, e le molteplici esperienze politiche e sociali che hanno segnato via via il Paese e l’hanno formato qual è.

Non si comincia ogni volta dall’anno zero, diceva giustamente Berlinguer; ma in lui la pregnante percezione dell’uniterietà di fondo del processo storico-politico lo portava a guardarsi bene dal trasmutare la continuità in piatto continuismo e ad esaltare sempre il momento e l’esigenza dello sviluppo, del rinnovamento nazionale. Per tali ragioni egli è riuscito a dare un contributo di elaborazione teorica e ideale, di atti e di iniziative pratiche, di gesti e di interventi concreti di cui si è giovato, ovviamente, il nostro partito ma di cui si è giovato il paese, lo Stato, la società, proprio perché a loro servizio è stato plasmato un grande partito democratico, rinnovatore, nazionale, all’altezza dei tempi, cioè moderno. Partito nazionale e moderno, innanzitutto, per una ragione e per una peculiarità importantissime: perché con Berlinguer il Pci ha non solo salvaguardato, ma ha reso più limpida, ferma e coerente di fronte al mondo la propria autonomia di giudizio e di condotta.

Un’autonomia, però, che mai è stata intesa e realizzata come chiusura nell’autosufficienza, come limitazione dell’orizzonte del partito ai confini del nostro paese, come autoisolamento. Se c’è stato un partito che, soprattutto con Berlinguer, ha sviluppato al massimo l’iniziativa in campo internazionale, che ha intessuto rapporti a livello europeo e planetario, che si è distinto nella lotta contro il riarmo e per il negoziato a sostegno dei movimenti per la pace, la distensione, la liberazione e l’indipendenza dei popoli, per la cooperazione e la collaborazione tra Est e Ovest e tra Nord e Sud del mondo, questo è stato il Partito comunista italiano.

E se c’è stato un combattente instancabile per queste cause e per questi obiettivi, che tutelano anche l’interesse dell’Italia, se c’è stato un vero internazionalista, convinto, aperto e, anche in questo campo, innovatore questi è stato, dalla fine degli anni sessanta alla primavera dell’84, Enrico Berlinguer. Partito nazionale e moderno, poi, per gli accenti, gli elementi, i contenuti che Berlinguer ha saputo non soltanto cogliere tempestivamente e assumere prontamente, ma che ha anche saputo imprimere alle grandi questioni nazionali di natura sociale, economica, politica, istituzionale, culturale, da quelle lasciate irrisolte sin dalla nascita dello Stato unitario, come la questione meridionale e la questione agraria, fino a quelle proposte o riproposte negli anni febbrili e tumultuosi della nostra vicenda nazionale.

Si pensi alla questione femminile, che Berlinguer, muovendo dalla intuizione ed impostazione togliettiana, sa sviluppare qualitativamente ed arricchire di motivi, di implicazioni, di finalità tali da affidare ad essa un ruolo innovatore di portata nazionale, generale e ad imporla come tale all’attenzione del partito all’attenzione del partito, della società italiana, delle istituzioni, delle donne stesse e dei loro movimenti. Così è della questione operaia, sindacale, dell’occupazione, del problema di cosa produrre e perché produrre, cioè di quale scopo, di quale sbocco, di quale qualità nuova hanno bisogno le attività produttive perché non siano finalizzate esclusivamente all’accumulazione per l’accumulazione, al profitto per il profitto e riacquistino un senso, un significato umano e sociale per l’operaio, per il tecnico, per il dirigente di impresa.

Così è della questione giovanile o di quella divenuta incalzante, della terza età, degli anziani; oppure della questione del terrorismo e dei poteri criminali come la mafia, la camorra, la P2. Per non parlare della riproposizione della questione comunista in termini nuovi, connessa ai problemi della salvezza della democrazia e della Repubblica, perché intimamente legata alla questione morale e alla questione democratica.

Ecco come in Berlinguer l’acuto senso delle responsabilità nazionali che competono a un partito comunista qual è il nostro si esprime in una linea politica che pone al centro non le fortune del proprio partito concepite a sé stanti, non dunque il potere per il potere, ma la crescita della sua influenza e della sua capacità di mordere nella realtà del paese per porle a servizio del risanamento e del rinnovamento dell’assetto sociale e dei partiti, della difesa della Costituzione e dell’ordinamento giuridico-politico che essa ha disegnato, della salvaguardia dei diritti e dei poteri del Parlamento come del sindacato, della tutela delle libertà di tutti i cittadini.

Ed ecco allora come la visione nazionale e lo spirito unitario, secondo cui ha pensato e ha agito Enrico Berlinguer, diventano senso dello Stato: il comunista conseguente, l’uomo di partito – di questo nostro partito – si rivela ed è uomo di Stato, uomo della nazione. Quanti ne annovera la storia politica del nostro paese dall’avvento dello Stato unitario a oggi? Non sono molti. Fra essi c’e Enrico Berlinguer, un grande comunista italiano, un grande italiano comunista.

 


Note sull’autore: Alessandro Natta (1918-2001) è stato un politico italiano. “Ultimo segretario del PCI” per sua stessa definizione, anche se non storicamente, abbandonò la carica nel 1988, in seguito ad un infarto durante un comizio. Nel 1991 lasciò la politica attiva, non condividendo nè la Svolta della Bolognina, nè gli intenti e gli obiettivi che si poneva la nuova formazione comunista di Cossutta.

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