dall’intervista a Guido Bimbi, “L’Unità”, novembre 1978
I popoli ex coloniali aspirano a riprendere il pieno controllo delle loro risorse naturali, a trovare vie di sviluppo economico e sociale diverse da quelle percorse e pretese dal capitalismo, si battono per il riequilibrio e per la democratizzazione degli scambi internazionali: il che vuoi dire, appunto, costruzione di un nuovo ordine economico.
Ne consegue, pertanto, che non è più possibile rivitalizzare e perpetuare in Italia e nell’Occidente europeo un tipo di sviluppo basato sull’ abnorme e artificiosa crescita delle pratiche assistenziali e dei consumi individuali, fonti di sprechi, di parassitismi, di dissipazione delle risorse, anche perché non è più possibile che la dinamica del benessere delle popolazioni degli Stati capitalistici possa trovare uno dei suoi sostegni nello sfruttamento e nella rapina dei paesi ex coloniali.
Sono dunque le ragioni stesse della crescita civile ed economica dei paesi «metropolitani» (Italia compresa) – una crescita che però deve realizzarsi in forme diverse da quelle finora attuate – che domandano un serio accoglimento delle ragioni di sviluppo e giustizia dei paesi del Terzo Mondo e l’instaurazione con essi di una politica di cooperazione su basi di eguaglianza. Ma ciò comporta, in Europa occidentale, una trasformazione profonda della struttura economica e dell’assetto sociale, un cambiamento della classe dirigente e l’affermarsi di un nuovo sistema di valori.
È solo in questi termini che non è più retorico parlare, come noi facciamo, di una concezione più articolata della solidarietà internazionale, di un’azione comune per il superamento dei blocchi militari contrapposti e per impedire che la loro logica venga a estendersi ad altri continenti.
Il problema di un nuovo ordine economico, insieme a quello, strettamente connesso, della salvaguardia della pace mondiale e del disarmo, è il problema centrale di quest’ultimo quarto di secolo. Nella lotta per la soluzione di questi grandi problemi una funzione specifica, e insostituibile, spetta al movimento operaio dell’Occidente. Di qui la nostra affermazione che la classe operaia deve divenire essa stessa promotrice di una politica di austerità.
Ma naturalmente, noi intendiamo la politica di austerità in maniera assai diversa dai gruppi dominanti capitalistici, che vorrebbero e tentano di scaricare tutto il peso della crisi sulle masse popolari, di lucrare cos1 più ampi margini di profitto, di conservare i loro privilegi.
Austerità, per noi, vuoi dire una politica di rigore, di lotta agli sprechi, ai parassitismi, di severità che sia fondata sull’equità, che sia quindi mezzo di sviluppo produttivo e leva per una politica di radicale rinnovamento e di trasformazione sociale ed economica.