da Critica Marxista, aprile 1981
Vi sono, certamente, pericoli di regressione, ma non tutto, certamente, è regressivo. Nella riproposizione dei problemi dell’individuo, per esempio, o nel riemergere di una complessa tematica etico-sociale, vi è anche il richiamo a questioni che non possono trovare risposta semplicemente attraverso la trasformazione delle strutture economiche o degli ordinamenti politici. Ricordo in proposito – anche perché, talvolta, sembriamo dimenticarcene – che proprio nel riferimento alla specificità di questi problemi sta una delle ragioni della nostra critica alle riduzioni economicistiche dell’analisi marxista.
Lo abbiamo sottolineato anche nelle tesi dell’ultimo Congresso, quando abbiamo scritto che nella nostra concezione «la trasformazione delle strutture è condizione basilare, ma che da sola non assicura i complessivi valori del socialismo e della libertà, né risolve tutti i problemi dell’uomo, né esaurisce le molteplici dimensioni dell’impegno umano».
Certo, è un errore che può essere molto pericoloso quello di credere o far credere che la politica o il partito possano costituire una risposta a tutti i problemi dell’uomo, o che sia loro compito creare «1’uomo nuovo»: abbiamo esplicitamente respinto ogni concezione mitologica e totalizzante e anche la concezione del partito come «prefigurazione» della nuova società.
Ma errore non meno grave – lo ripeto – sarebbe appiattire l’azione politica sui problemi dell’immediato, sulla pratica del piccolo cabotaggio, sulla routine del giorno per giorno: se si toglie all’impegno politico una proiezione e una tensione verso l’avvenire, se lo si riduce ai giochi di potere, a iniziative di corto respiro, a diplomatismi, a polemiche o a trattative e intese tra gli esponenti dei partiti, allora è evidente che si contribuisce ad aggravare una crisi di sfiducia e di disorientamento che ha già dimensioni allarmanti.
Al di là di questo ragionamento di carattere generale, occorre però vedere quali limiti di una certa concezione della politica siano messi in luce da questo spostamento di interesse verso il terreno etico o quello sociale. Mi pare chiaro, per esempio, che c’è un problema che subito viene in evidenza: è la crisi di una impostazione dirigistica e centralistica, che negli ultimi anni è apparsa in crescente difficoltà, sia nelle versioni statalistiche dei paesi di indirizzo socialista, sia nelle versioni programmatorie delle socialdemocrazie occidentali.
Da destra si cerca di rispondere – come si è visto – con il rilancio di una ideologia liberal-liberista. Ma rifiutare questa ultima posizione non significa però nascondersi i problemi che si pongono alla sinistra: fra questi problemi vi è, certamente, quello di una nuova articolazione del rapporto Stato-individuo-società, nonché quello di approfondire, anche alla luce delle differenti esperienze che a questo riguardo si sono compiute e si compiono, che cosa possano essere esperienze di gestione sociale che non siano imperniate su un accentramento statalistico, come trovare nuovi rapporti tra programmazione e mercato. […]