Intervista a Nuova generazione, supplemento al n. 92, 14 aprile 1972.
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La Democrazia cristiana non si è mai occupata dei veri problemi dei giovani e di questi problemi non parla neppure in questa campagna elettorale. Nei discorsi dei dirigenti democristiani vi è invece il tentativo di indicare nei giovani e nei loro movimenti una delle cause principali del «disordine ». Traendo pretesto dalle gesta sconsiderate di qualche gruppetto estremista, la Dc fa di ogni erba un fascio e presenta questi episodi come la logica conclusione dei grandi moti giovanili e studenteschi di questi ultimi anni.
È evidente che i dirigenti democristiani hanno inteso che la protesta giovanile esprimeva una condanna morale e politica per il modo con il quale la Dc ha governato l’Italia e per questo hanno cercato di presentarla o come un normale momento di «trapasso» tra generazioni, oppure come un fenomeno di irrazionalità e di puro estremismo. Ma questa operazione, nel complesso, non è riuscita. Il fatto che in ristretti gruppi giovanili si siano determinati fenomeni negativi e si sia infiltrata la provocazione non cancella la realtà di un forte moto giovanile che esprime l’esigenza di un radicale rinnovamento della società e si collega alla classe operaia e alle sue organizzazioni sindacali e politiche.
Tuttavia c’è chi, in alcuni gruppi giovanili, in buona o cattiva fede, fornisce argomenti a chi vuole dipingere i movimenti giovanili come manifestazione di una volontà puramente distruttrice.
In una situazione di crisi acuta come quella che l’Italia attraversa, non deve in fondo sorprendere nessuno il fatto che l’uso degli strumenti della provocazione si faccia, da parte delle forze reazionarie, più pesante e più esteso. Noi abbiamo indicato da tempo questo pericolo e invitato tutti alla più severa vigilanza. Nel contempo noi abbiamo analizzato e criticato le radici ideologiche che hanno portato a un processo degenerativo di alcuni gruppi estremistici, rendendoli indifesi ed esponendoli ai rischi della strumentalizzazione reazionaria e della infiltrazione massiccia di provocatori e persino di delatori.
Scusa se ti interrompiamo; ma vogliamo porti un punto centrale della discussione oggi aperta tra i giovani: in che senso dobbiamo intendere il termine estremismo, quando parliamo dei gruppi? Nel senso in cui lo usava Lenin, oppure si tratta di qualche cosa di diverso?
Al XIII Congresso abbiamo proposto all’attenzione dei compagni quello che ci pare uno dei punti di approdo principali del processo di degenerazione subito da alcuni gruppi: la loro trasformazione da espressione sia pure infantile e velleitaria di una vasta e significativa rivolta dei giovani contro il sistema capitalistico, a formazioni che si sono schierate contro le organizzazioni del movimento operaio finendo cosi col divenire, anche se talvolta inconsapevolmente, strumenti di operazioni e disegni della destra. Non dimentichiamo però che vi sono ancora giovani che continuano a seguire in buona fede questi gruppi e ai quali abbiamo rivolto e rivolgiamo un discorso chiaro: le loro energie rivoluzionarie devono esprimersi contro la destra fascista e reazionaria, contro tutte le forze conservatrici, collegandosi al movimento operaio organizzato e alla sua strategia e tattica fondata sulla lotta unitaria, democratica e di massa, che è la sola che può trasformare la società.
Alcuni degli orientamenti dei gruppi estremistici sono dunque analoghi a quelli di cui scrisse Lenin. Vi sono però delle diversità, che derivano sia dalle radici sociali, sia dai comportamenti pratici.
Mentre denunciamo apertamente i fenomeni degenerativi e il ruolo negativo e persino provocatorio di alcuni gruppi estremisti, ribadiamo la nostra convinzione che il movimento dei giovani che si è sviluppato dal 1968 in poi è stato un fenomeno fondamentalmente positivo. Non si è trattato di semplici movimenti di protesta ma di movimenti politici che nascevano da un disagio materiale e morale profondo, e che esprimevano il distacco di larghi strati di giovani dal sistema di potere e dagli orizzonti culturali e politici della borghesia. Fenomeni di questa portata non potevano non assumere forme radicali anche esasperate. Il nostro atteggiamento ha teso a cogliere le radici reali dei movimenti giovanili ed a cercare di saldarli al grande moto di rinnovamento della nostra società. A favore della nostra linea parlano i risultati. Con la nostra apertura e con il confronto critico abbiamo realizzato una saldatura fra il Pci e una parte grande delle nuove generazioni che ha portato tanti giovani ad incontrarsi con il partito e con il suo patrimonio ideale e politico, scoprendo il nucleo essenziale del leninismo «tradotto in italiano» da Gramsci, Togliatti e Longo.
L’incontro con il Pci ha voluto dire il passaggio dalla pura negazione e dalla protesta contro il capitalismo in generale alla critica del capitalismo nella sua concreta e attuale espressione storica in Europa, in Italia e nel mondo, ed alla comprensione delle linee di strategia che occorre seguire per avanzare verso il socialismo, nelle condizioni della nostra epoca e del nostro paese, Per superare l’estremismo è necessaria «l’analisi concreta della situazione concreta». Quando questo avviene – come è avvenuto in Italia per decine di migliaia di giovani che sono entrati nelle nostre file – l’avversario, che può tollerare piuttosto agevolmente le forme di contestazione «spontanee» e utopistiche, è accecato dalla rabbia e dalla paura, perché si rende conto di che cosa significa il passaggio dalla pura ribellione e protesta alla scienza ed alla organizzazione rivoluzionaria.
Come sai, spesso alcuni gruppi ci attaccano su determinati aspetti della nostra strategia, per esempio sulla nostra ricerca di ampie alleanze sociali e politiche e sulla nostra scelta di una lotta che deve svolgersi sul terreno democratico, ricavando ne la conclusione che noi saremmo dei riformisti e vorremmo attenuare le tensioni che più combattivamente mettono in discussione il sistema capitalistico.
La risposta a questa accusa è nei fatti. Tutti vedono che la classe dominante italiana non riesce a chiudere a proprio vantaggio la crisi aperta nel paese, perché ha contro di sé un grande e agguerrito movimento di massa, alla cui testa siamo noi comunisti, che riesce ad incalzarla su tutti i terreni con una giusta strategia. Non per caso i nostri avversari cercano con ogni mezzo (dalle provocazioni criminali, all’incoraggiamento dato ai gruppi estremisti, all’appoggio parallelo alle correnti riformiste, ecc.) di farci abbandonare questa strategia che muove le cose, muta nei fatti i rapporti di forza, fa avanzare giorno per giorno il movimento operaio, conquista l’adesione ideale e impegna e dà slancio a sempre nuove energie, a cominciare da quelle dei giovani.
Gli attacchi a cui vi riferite intendono anche mascherare una politica sostanzialmente nullista e senza prospettive. In questo senso può essere utilmente ricordata la favoletta di Krylov che Lenin riporta nel Che fare?: la favola delle due botti che rotolano sul selciato. Una fa un rumore infernale, salta, rimbalza, attira l’attenzione di tutti, ma è vuota; l’altra, piena di buon vino, rotola invece silenziosa e sicura, senza pittoresche giravolte, ma senza che nulla possa deviarla dal proprio cammino.
Ma forse è meglio che ci occupiamo ora dei problemi veri delle grandi masse giovanili, che sono quelli su cui devono lavorare la Fgci e il partito.
A questo proposito qual è il tuo giudizio?
Vi è un aggravamento delle condizioni di vita complessive della gioventù italiana. Diviene sempre più difficile, per i giovani, entrare in modo libero nella produzione e nella vita sociale. Dico in modo libero, e cioè senza venir arbitrariamente scelti, incasellati, inseriti nell’«ingranaggio prestabilito» dai ceti dominanti. Oggi, di fatto, le enormi energie sociali rappresentate dalle giovani generazioni vengono escluse dal processo produttivo, dallo sviluppo civile e dalla storia. Infatti, la fase «matura» a cui è giunto il capitalismo italiano, imperniato sull’allargamento del consumo improduttivo a danno degli investimenti produttivi, ostacola, all’origine, la formazione dell’offerta di un numero adeguato di posti e di impieghi alle nuove leve che, ogni anno sempre più numerose, si affacciano sul mercato del lavoro. Di qui la crescita rilevante della disoccupazione giovanile, non solo operaia e contadina, ma dei giovani diplomati e laureati.
Ci sono però altri temi sentiti in modo altrettanto scottante.
Certo, accanto al problema del lavoro, i giovani sentono acutamente problemi come quelli della scuola e della famiglia, due momenti della formazione del giovane in quanto uomo e cittadino, due forme della vita associata poste in crisi dai meccanismi spontanei e dai miti del capitalismo «sviluppato» e da venti anni di politica democristiana.
La crisi di strutture e di idee apertasi nella scuola si è via via aggravata durante gli ultimi trent’anni fino a tradursi in uno stato quasi di disfacimento che pesa non solo sui giovani e sulle loro famiglie ma sull’intero sviluppo nazionale. I giovani e i movimenti studenteschi hanno avuto e hanno il merito di rendere evidente che la soluzione del problema scolastico non può essere avviata se non attraverso una modificazione radicale sia degli ordinamenti e programmi scolastici sia dell’intero assetto sociale. Sta qui il senso reale e positivo della ribellione studentesca e la sua portata politica nazionale.
È giusto considerare dunque il movimento studentesco come componente essenziale di tutta la battaglia per sviluppare la democrazia e per rinnovare la società nella direzione del socialismo?
Si. Noi comunisti abbiamo sempre considerato che la lotta nella scuola non deve proporsi solo l’obiettivo della sua riforma. Essa va collegata a precisi obiettivi di democrazia e di rinnovamento delle strutture sociali. Basta pensare, ad esempio, all’acutezza che hanno problemi come quelli della qualificazione culturale, degli sbocchi professionali, della disoccupazione intellettuale. Ma per questo occorre colpire in primo luogo concezioni ed ordinamenti scolastici retrivi e classisti, sacche di potere baronale, cosche corrompitrici e parassitarie che allignano e prolifica no in tutti i gradi della scuola è dell’istruzione, distorcendo e comprimendo, a vantaggio dei gruppi capitalistici dominanti, la formazione culturale e professionale dell’uomo, del lavoratore, del cittadino.
Eppure c’è chi disprezza questo terreno di lotta e lo considera arretrato e secondario rispetto allo scontro di classe reale.
Chi disprezza questo terreno di lotta non è «più rivoluzionario»: di fatto rinuncia a compiti forse meno facili di altri, ma non eludibili, e si rifugia in una pura fraseologia pseudo-rivoluzionaria o in azioni velleitarie. Bisogna tener conto, inoltre, che è anche e soprattutto nella scuola che le avanguardie degli studenti possono crearsi vere e salde basi di massa, e mettersi quindi in condizione di portare fuori dalle scuole e dalle università in tutte le lotte sociali, democratiche e antimperialistiche della classe operaia e delle sue organizzazioni sindacali e politiche, l’apporto non solo di gruppi avanzati, ma di masse sempre più ampie di studenti.
In questo senso anche la presenza e la lotta delle ragazze hanno un forte valore democratico.
Direi di più, un valore profondamente rivoluzionario. La « questione femminile », infatti, non deve essere considerata una questione di retroguardia; al contrario, lo sviluppo capitalistico determina una accentuazione della condizione servile e di inferiorità della donna non riducibile agli aspetti economici e sociali. Perciò la lotta per l’emancipazione della donna comporta un radicale rinnovamento politico, ideale e del costume del nostro paese: come giovani e come donne, le ragazze devono sentire tutta l’urgenza di un loro impegno diretto nell’azione sindacale, sociale e politica, nelle campagne, nelle fabbriche, nella scuola, nel paese.