(Achille Occhetto, Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2009)
Di Achille Occhetto si possono dire tante cose, meno una: che abbia cambiato il nome al PCI per interesse personale o per opportunismo politico. E la prova di questo è data non solo da come è stato trattato in seguito dagli oligarchi della Quercia, che anziché offrirgli la presidenza del partito gli diedero il benservito, ma anche dal fatto che nelle varie mutazioni succedutesi in vent’anni non si sia mai spostato di un millimetro dalle sue posizioni originarie che lo avevano spinto a fare la Bolognina, e cioè trovare una via nuova per la Sinistra.
Se a muoverlo fosse stato un freddo e arido machiavellismo politico, probabilmente si sarebbe adeguato di volta in volta ai continui strappi imposti per vent’anni dai suoi successori, e magari adesso starebbe pure nel Pd, come una sorta di padre nobile alla stregua di Prodi. Non è stato così, tanto che si è iscritto a Sinistra e Libertà, in coerenza con quello che ha sempre affermato.
Certo, Occhetto forse ha sbagliato molte cose, innanzitutto nella scelta degli alleati: da quel Napolitano che oggi si scopre fosse pure contrario al cambio del nome perché poteva mettere a rischio l’unità socialista (o meglio, l’assorbimento del PCI da parte del PSI di Craxi), fino a quel D’Alema che controllava oramai quasi un terzo del partito e che lo ha logorato nello stesso identico modo con cui avrebbe logorato Prodi e, da ultimo, Veltroni.
Nel suo intento originario, Occhetto ha fatto la Svolta per andare oltre la tradizione comunista e dare un nuovo profilo alla Sinistra, ma a ben vedere quel progetto è fallito non per mancanza di idee, ma per troppa smania di potere da parte di chi lo ha succeduto.
Perché è un fatto che la Svolta occhettiana era solo una conseguenza, ma non della caduta del Muro, bensì della politica di Enrico Berlinguer, che era sempre un passo avanti, sia rispetto alla base, sia rispetto ai suoi colleghi di partito.
Nei primi anni Ottanta Berlinguer era riuscito a mettere a fuoco i grandi temi di una nuova politica di sinistra, al di là della tradizione comunista: l’impiego dell’energia solare, invocato nel 1983, per ridurre la dipendenza energetica del nostro paese; la strategia del compromesso storico, per creare un unico orizzonte delle forze anti-fasciste e portare i comunisti al governo; la rottura con l’URSS, quando il socialismo sovietico era un punto di riferimento internazionale per tutti i comunisti; la battaglia per la dissoluzione del divario crescente tra nord e sud del mondo, quando la globalizzazione non era ancora una parola del dizionario; l’importanza del ruolo dell’Europa, da contrapporre sia al decrepito comunismo reale sia al neoliberismo portatore di ricchezze per pochi e di ingiustizie per molti; per non parlare del progetto di un’economia mondiale con Olof Palme, della valorizzazione della diplomazia dei popoli, dei movimenti della pace e delle donne.
Ma è proprio nella Questione Morale che si comprende appieno la grandezza e la lungimiranza di Enrico Berlinguer: prima di tutti, aveva capito il rischio a cui andavano incontro i grandi partiti di massa, se non avessero aggredito appieno la cause della Questione Morale, punto fondamentale per la ripresa di fiducia dei cittadini nelle istituzioni e quindi della tutela della democrazia.
Alla luce di tutto questo, ci si chiede perché si riabiliti Craxi e si spari a zero su Berlinguer. È presto detto: dare atto a Berlinguer di aver delineato già 30 anni fa una politica moderna che andasse oltre la tradizione comunista, significherebbe dimostrare il carattere tautologico e politicamente pasticciato dell’operazione «cambio del nome» e «nascita della Cosa».
Tanto pasticciato e improvvisato che il PD è ancora alle prese con la propria identità ed è diviso tra chi vuol farne un partito a denominazione socialdemocratica (ciò che il Pci di Berlinguer già era, e con onore) e chi vuol farne un partito moderato all’americana (non sapendo oltre tutto, questi ultimi, che i partiti negli Stati Uniti sono tutt’altra cosa che in Europa occidentale).
Storicamente l’essenza della politica è la capacità di costruire identità collettive attraverso un uso sofisticato dell’ideologia come strumento per definire gli interessi collettivi di lungo periodo: venute meno le ideologie, è venuta meno anche la capacità della politica di costruire identità chiare e definite con cui incentivare la partecipazione dei cittadini alla politica.
Con la creazione di sub-culture politiche, i partiti socialisti hanno tradizionalmente offerto risorse di identità a chi era escluso dalla società. Non proponevano, infatti, a chi entrava in quel “mondo rosso”, solamente speranze politiche, ma anche un’identità con cui “i compagni” si potessero riconoscere l’un l’altro e venissero riconosciuti anche dal resto della società, che implicitamente li rispettava.
È questo che è mancato alla Bolognina, o meglio, a chi ha gestito la fase successiva: non è stato in grado, infatti, di costruire un’identità stabile e duratura nel tempo perché la Sinistra, da quel momento, si è appiattita su logiche di corto respiro. Non ha formato l’opinione pubblica, ma l’ha inseguita, e in un Paese in cui l’opinione pubblica è fatta dalla tv a monopolio berlusconiano, non poteva che essere scontata la sconfitta.
Come ho già detto lunedì, la Sinistra è in esilio: a vent’anni dalla Bolognina, sarebbe anche il caso di tornare in patria e piantare le tende una volta per tutte. In parole povere, creare una nuova Idea di Sinistra.
io vorrei solo far notare che occhetto ha fatto un errore gravissimo…se era un erede dell’idea di Berlinguer mi sa che ha deluso tutti…voglio ricordare che berlinguer diceva sempre che il suo partito è comunista e che non sarebbe mai diventato una forza socialdemocratica…invece occhetto,dalema,fassino,veltroni hanno fatto questo…trasformare il PCI in una forza socialdemocratica…rimanere comunisti era la miglior cosa cari compagni