Perchè Berlinguer è ancora attuale

di Eugenio Scalfari, La Repubblica, 31 dicembre 2005


É INUTILE girarci intorno con frasi criptiche e untuose: la dirigenza diessina è assediata e sotto schiaffo.

D’Alema “in primis” e insieme a lui Fassino e Bersani. Si tratta d’un complotto? Oppure d’un boomerang? O di tutte e due le cose insieme? Lascerei a Berlusconi di sospettare complotti ogni volta che viene sorpreso a mangiare di nascosto la marmellata (in questi cinque anni di governo ne avrà fatto un’indigestione). E poi, chi potrebbe aver architettato complotti contro i Ds? Non confondiamo i complotti con la normale lotta politica. Quando gli avversari vedono il loro competitore in difficoltà ne approfittano senza andar per il sottile, ma questo non è complotto. Nella corsa delle bighe dai tempi di Tiberio a finire con quelli di Vespasiano Flavio l’auriga cercava di colpire l’avversario con la frusta pur di impedirgli il sorpasso e così più o meno fanno tuttora i fantini delle contrade al Palio di Siena.

Nel caso Ds-Unipol c’è stato un grave errore di valutazione e un’altrettanto grave inesperienza dell’economia di mercato. L’errore è stato quello di fiancheggiare la principale impresa delle Coop e i suoi dirigenti nel momento in cui era aperta una pubblica gara per il controllo di una banca. In quei casi un partito politico dovrebbe astenersi da ogni commento, da ogni contatto, da ogni preferenza poiché il giudizio è delegato al mercato e alle regole che lo presidiano.

L’inesperienza ha contribuito ad aggravare l’errore perché i meccanismi del mercato operano con estrema rapidità e non combaciano con i tempi lunghi della risposta politica. Sia D’Alema che Fassino spiegarono fin dallo scorso luglio i motivi della vicinanza storica della sinistra italiana e del loro partito in particolare con il movimento cooperativo e manifestarono il loro apprezzamento per l’Opa lanciata dall’Unipol sulla Banca Nazionale del Lavoro.

Aggiunsero anche che quell’apprezzamento era valido alla condizione che l’iniziativa si svolgesse “nel pieno rispetto delle regole”. Detta così, sembrò una posizione perfettamente legittima e come tale fu apprezzata da chi non aveva speciali ragioni e interessi a penalizzare l’Unipol. Tuttavia si vide ben presto che alcune di quelle regole erano state violate. La prima violazione avvenne con l’acquisto delle azioni del cosiddetto “contropatto” guidato dal proprietario del “Messaggero” e immobiliarista di rango, Francesco Caltagirone.

La conseguenza di quell’acquisto, nonché i patti con la Deutsche Bank e con altri istituti di credito, fu quella di rendere di fatto l’Opa già vinta prima ancora di cominciare poiché gran parte del flottante era stato rastrellato in anticipo con mezzi non propriamente trasparenti. Chi fosse stato esperto delle manovre di mercato avrebbe capito che il “rispetto delle regole” era saltato e ne avrebbe tratto le prime conseguenze.

Invece la preferenza storica nei confronti delle Coop ha continuato a prevalere nel gruppo dirigente diessino mentre la macchina della giustizia si era già messa in moto nei confronti della Popolare di Lodi e delle eventuali connessioni con Unipol. Da quel momento la dirigenza diessina ha cominciato a prendere qualche maggiore distanza da Unipol ma sempre tenendosi un passo indietro rispetto alle iniziative e alle acquisizioni della magistratura inquirente.

Con effetti di immagine molto negativi che gli avversari, esterni e anche interni alla coalizione di centrosinistra, non hanno mancato di utilizzare. Ora si è arrivati al punto (“Il Foglio” di ieri) di addossare a supposta responsabilità di D’Alema i 50 milioni di euro lucrati da Consorte nei suoi oscuri maneggi con Gnutti e Fiorani. E’ stato dato per ipoteticamente ovvio che quella “provvista” di fondi fosse destinata al leader Ds, additando come esempio quel Craxi che alla Camera aveva ammesso di aver percepito tangenti credendo di discolparsi con una generale chiamata in correità di tutti gli altri partiti.

“Il Foglio” vorrebbe che D’Alema facesse altrettanto, passando sopra tranquillamente al fatto che il leader diessino non è accusato di nulla, che non esiste il più lontano indizio di reato nei suoi confronti, laddove Bettino Craxi era già in piena tempesta giudiziaria quando pronunciò quel discorso che segna uno dei punti più bassi della storia politica italiana. Non c’è complotto ma c’è sicuramente diffamazione grave al limite della calunnia, di fronte alla quale non si è sentita ancora la reazione dell’uomo-bersaglio.

Si nota una sorta di afasia da parte della dirigenza Ds da qualche giorno in qua. A nome di tutti parla il coordinatore della segreteria, Chiti, il quale “apprezza le doverose dimissioni di Consorte dalla presidenza dell’Unipol”. E’ sufficiente? No, non è sufficiente. Lo sarebbe stato se non oggi ma in agosto o in settembre o in ottobre o in novembre, man mano che il disprezzo delle regole e gli intrecci Consorte-Gnutti – Fiorani emergevano sempre più chiaramente, la dirigenza diessina avvesse dichiarato l’insostenibilità morale della permanenza di Consorte alla testa di Unipol.

Sicché oggi, ultimo giorno dell’anno, la condanna morale dell’ex presidente di Unipol dev’essere chiara e netta. Il garantismo non c’entra. Parliamo di condanna morale e politica, non giudiziaria che tocca alla magistratura di dare o non dare. Questo è lo scudo, anche tardivamente imbracciato, con il quale respingere le calunnie e riprendere l’iniziativa. Se non ora, quando?

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Da Forza Italia il coordinatore Bondi ha lanciato un’assai bizzarra proposta ai diesse e a tutto il centrosinistra: “Uniamoci per contrastare i poteri forti che sono all’attacco della politica“. La risposta di tutto il centrosinistra è stata immediata: non c’è alcun attacco di poteri forti, non sappiamo quali siano i poteri forti, comunque non abbiamo alcuna intenzione di unirci con chi ha devastato in ogni modo le istituzioni della Repubblica.

Risposta a nostro avviso perfetta. Ma perché Bondi si è spinto fino a invocare una sorta di “Union sacrée” per difendere la Politica con la P maiuscola? Quando la Politica con la P maiuscola latita da un pezzo? Quando i poteri forti d’un tempo battono semmai ben altre bandiere che non il nostro tricolore? La bizzarra e bislacca sortita di Bondi ha una sua nascosta motivazione. Vede le sorti del centrodestra e di Forza Italia in particolare sempre pericolanti, nonostante l'”assist” fornito dalla vicenda Unipol. E vuole limitare il rischio della sconfitta.

L'”Union sacrée” sommata ai marchingegni della “proporzionale” dovrebbe facilitare un “pari e patta” post-elettorale con l’inevitabile “serrate al centro” fatto non più da Casini ma da Berlusconi in prima persona. Un’apertura così scoperta suona campana a morto per il Polo. Errore con error si paga. Petrolini avrebbe detto “Grazie, prego, grazie”.

Ricordate? Enrico Berlinguer parlò lungamente, fin tanto che visse, di questione morale. Parlò anche con altrettanta insistenza della “diversità” dei comunisti. Fu rispettato da tutti, anche dai più accaniti avversari (salvo Craxi) per quel suo primo e tenace richiamo, ma il secondo lo isolò anche dentro il suo partito. Le ricostruzioni e le interpretazioni di oggi, sempre nel più grande rispetto per la tempra morale dell’uomo, hanno accentuato quell’isolamento e la tesi prevalente attribuisce il suo elogio alla “diversità comunista” al timore di omologazione. Non voleva che i comunisti fossero omologati. A che cosa? Alla democrazia pura e semplice. Era comunista, quindi non era democratico, non accettava di esserlo. Non voleva separarsi dal grosso del partito.

Neppure dalla retroguardia ideologizzata e “trinariciuta”. La “diversità” come gabbia. La questione morale come linea di confine. Non aveva la duttilità togliattiana. Sembravano fino a pochi giorni fa dispute tra storici. Lana caprina. Ricordi “d’antan”. Ma vedete com’è imprevedibile la vita? Da qualche settimana sono improvvisamente tornate d’attualità. Berlinguer avrebbe appoggiato uno come Consorte? Come Ivano Sacchetti? Come Gnutti? Domande retoriche, la risposta è cento volte no. Denunciò la mutazione genetica che Craxi aveva prodotto nel corpo del Partito socialista.

Forse politicamente quella denuncia fu un errore, ma Berlinguer quella “mutazione” la sentiva come una ferita al cuore della sinistra italiana, degli ideali del socialismo, del movimento dei lavoratori. Non era un moralista Enrico Berlinguer, era un uomo profondamente morale. Voleva che le istituzioni tornassero ad esser tali e non postazioni occupate dagli apparati di partito. Commise un sacco di errori, ma è morto in pace con la coscienza e non ha mai pensato che la politica potesse avere la P maiuscola se si fosse separata dal sentimento morale.

Per quel tanto che li conosco da vecchio laico e liberale, credo che gran parte della dirigenza diessina a cominciare da Fassino e D’Alema conservi quel lascito che Berlinguer sperò di aver trasmesso ai suoi compagni quando si accasciò all’ombra della morte durante il suo ultimo comizio in quella drammatica sera dell’11 giugno del 1984.

Lo rivendichino oggi a testa alta, quel lascito. E lo confermino con i fatti e i comportamenti. La furbizia non paga, la scaltrezza neppure. Ci vogliono in politica, guai ad essere ingenui (Berlinguer non lo era). Ma bisogna affiancare queste capacità con l’intelligenza e il sentimento morale, non soltanto come fatto privato ma come elemento fondante della “polis”.

La sinistra – dicono i suoi critici – si ritiene diversa e superiore e questo è il suo peccato. La risposta secondo me è questa: chi fonda la sua politica sul sentimento morale è diverso e superiore a chi amministra soltanto potere e interessi. Potrà anche perdere, ma cadrà in piedi. Il professor Panebianco dalle colonne del “Corriere della Sera” incita la sinistra ad abbandonare la morale che non si sposa con la politica. Ebbene, sono in totale disaccordo con lei, professore.

So bene qual è l’autonomia della politica, ma a noi liberali è stato anche insegnato che l’etica è il momento più alto dell’uomo politico, quando veste i panni curiali della ragione e delle morale. Del bene comune. La Destra storica, nei suoi uomini migliori, incarnò questo ideale e fece politica con la P maiuscola, fondò lo Stato, votò le leggi che lo hanno tenuto insieme per cent’anni nonostante tutte le tempeste che lo hanno investito e devastato. Se ancora se ne parla malgrado tutti i revisionismi non sarà un caso.

P. S. Il ministro Tremonti ha rivendicato l’altro ieri d’esser stato il primo a segnalare la pericolosità di Antonio Fazio fin dal 2003, nel generale silenzio dei politici e della stampa. Abbiano riconosciuto il suo contributo a quella sia pur tardiva (non per sua colpa) operazione di pulizia. Ma non è accettabile accusare la stampa di silenzio omertoso. A me non risulta che quel silenzio ci sia stato ma non mi compete parlare per altri. Parlerò dunque per questo giornale e per me.

Il mio primo articolo di aperta critica e denuncia dell’ex governatore porta la data del 30 aprile 1999; il titolo è “Tutti da Fazio in lunga confessione” cui segue un occhiello che recita: “Può il governatore detenere poteri politici senza doverne rispondere a nessuno?”.

Ho spedito oggi il testo di quell’articolo, cui ne seguirono molti altri e non soltanto a mia firma, al ministro Tremonti affinché non creda d’essere stato il solo e inascoltato mentore di questa triste vicenda. Di quell’articolo riporto qui soltanto una frase.

Molti pensavano che la nascita dell’euro e della Banca centrale europea, del cui consiglio direttivo Fazio è soltanto uno dei diciotto componenti, l’avrebbero relegato in una posizione più defilata come è avvenuto per tutti gli altri governatori delle banche nazionali. Ma Fazio ha incassato il colpo e l’ha subito restituito: la politica monetaria non è più cosa sua, ma lui resta tuttora il capo del sistema bancario italiano con diritto di alta e bassa giustizia su tutti i banchieri del nostro paese. Non credo che ci sia un altro paese tra quelli del G7 in cui il governatore abbia poteri altrettanto dittatoriali sugli istituti di credito. A quei poteri Fazio si è aggrappato con le unghie e aggrappato ci resterà fino a quando le leggi non saranno adeguate alla nuova logica del mercato, della trasparenza e della concorrenza. Ma per questo ci vuole tempo e volontà politica. Il governatore evidentemente confida che la volontà politica difetti e che il tempo scorra senza sussulti“.

Come infatti è puntualmente accaduto fino a pochi giorni fa.

 


Note sull’Autore: Eugenio Scalfari è un giornalista, scrittore e politico italiano. Storico direttore de “La Repubblica”, che fondò nel 1976, ne abbandonerà la direzione nel 1996. Nel 1955 partecipa all’atto fondativo del Partito Radicale, che poi abbandonerà per il PSI nel 1963. Critico con Bettino Craxi, che definì l’archetipo della Questione Morale, condivide la linea di Berlinguer, pur restando essenzialmente estraneo alla tradizione comunista e rimanendo su posizioni legate all’intellettualità laica e alla tecnocrazia. Attualmente è editorialista de “La Repubblica” e cura una rubrica su “L’Espresso”.

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