«Sottovalutò i tre nemici: Usa, Urss e borghesia reazionaria»

Intervista a Pietro Ingrao, di Piero Sansonettil’Unità 27 maggio 2004


«Andai da Berlinguer per esporgli le mie critiche al compromesso storico. E lui ascoltò con garbo. Ma l’incontro andò male perché Enrico Berlinguer non capì le ragioni del mio dissenso. Forse perché non seppi spiegare bene la mia obiezione fondamentale: avvertivo, ormai, una crisi della nostra politica, sentivo che bisognava cambiare strada…». E’ uno dei passaggi dell’intervista a Pietro Ingrao sulla figura di Enrico Berlinguer, a vent’anni dalla morte.

Pietro Ingrao è stato per circa una quarantina d’anni fra i maggiori dirigenti del partito comunista italiano. Partecipò alla cospirazione clandestina comunista dalla seconda metà degli anni trenta; militò nelle file della Resistenza, e a guerra finita andò a fare il capocronista all’Unità: nel ’48 divenne direttore del giornale, e poi visse le battaglie della sinistra nella seconda metà del secolo. Ingrao era uno dei ragazzi scelti da Togliatti, dopo la Liberazione, per costruire il nuovo gruppo dirigente comunista. E lavorò a stretto contatto con Togliatti fino alla morte del segretario del Pci. Poi si aprì un dissenso sempre più marcato tra lui e l’ala del partito raccolta attorno a Longo e a Giorgio Amendola. Iniziò, nel Pci, una battaglia politica che portò Ingrao a una posizione di minoranza in cui, poi, è rimasto per tutta la vita. Lo scontro avvenne soprattutto con la corrente raccolta attorno ad Amendola, a Paietta e Alicata: e si infiammò in un drammatico congresso, nel ’66 (l’undicesimo congresso del Pci), in cui Ingrao e gli “ingraiani” furono sconfitti, e poi praticamente emarginati dai ruoli guida nel partito, e inviati a lavorare – quasi tutti – lontano da Roma (Reichlin in Puglia, Pintor nella natia Sardegna, la Rossanda presto allontanata dalla direzione della Sezione culturale). In quell’XI congresso Enrico Berlinguer assunse una posizione intermedia, abbastanza defilata, e anche lui – a congresso finito – pagò un prezzo: fu allontanato dall’ufficio di segreteria del Partito e andò a dirigere il comitato regionale del Lazio. Alla fine degli anni Sessanta tornò alla ribalta al vertice del Partito, vincendo la “corsa” con Giorgio Napolitano (molto vicino alle posizioni di Amendola) per la vicesegreteria del Pci. Cioè diventò l’erede designato di Luigi Longo. Ingrao non ebbe mai un rapporto molto intenso con Berlinguer, in quegli anni. Anche perché, dopo aver fatto per un lungo periodo il presidente del gruppo parlamentare, si era ritirato in una posizione di secondo piano: passò a dirigere la sezione che si occupava degli Enti locali. Nel 1976 invece, Ingrao improvvisamente fu chiamato ad un alto incarico: fu designato dal partito come candidato alla presidenza della Camera (dai tempi di Umberto Terracini – nel ’48 – nessun comunista aveva più avuto una così alta funzione pubblica), e venne eletto a quella che era considerata la terza carica dello Stato.

Quando sei stato presidente della Camera avevi rapporti intensi con Berlinguer, che era il segretario del partito?

Pochi. Botteghe Oscure non si occupò molto del mio impegno alla guida della Camera.

Come fu decisa la tua candidatura a presidente della Camera? In quel periodo tu nel partito eri all’opposizione. Ti eri opposto alla linea del compromesso storico, ti eri dimesso dall’incarico di presidente del gruppo parlamentare…

Sì, la proposta mi colse del tutto di sorpresa. Tra me e la direzione di Botteghe Oscure non c’era proprio un feeling. Io ero andato da Berlinguer a dirgli tutte le mie riserve nei riguardi della linea cosiddetta del compromesso storico, anche se i rapporti personali tra me e lui furono sempre buoni, schietti, e c’era una grande stima reciproca. Ma quanto alle opinioni politiche, il mio dissenso dalla linea berlingueriana era forte. Naturalmente la proposta di fare il presidente della camera per me fu una grande sorpresa. Non ci pensavo minimamente. Invece andò così. C’erano appena state le elezioni politiche del 1976, il Pci aveva avuto un balzo nei voti, e già comunisti erano sindaci a Torino, Bologna, Roma, Napoli. Ma la Dc restava pur sempre il primo partito. Nel quadro della ricerca di una intesa tra Dc e Pci si decise di assegnare ai comunisti la Presidenza della Camera. E il Pci fu chiamato a indicare il suo candidato. Quella mattina io mi trovavo in casa, era l’ora di pranzo. Stavo mangiando con Laura, mia moglie, in cucina. Eravamo soli. Mio figlio Guido era a scuola, le figlie grandi ormai vivevano tutte fuori di casa. D’un tratto squillò il telefono. Andai a rispondere. Era Berlinguer. Mi dice molto brevemente come stavano le cose: “Guarda, noi qui stiamo discutendo la questione della presidenza della Camera. Abbiamo pensato tutti a Giorgio Amendola, ma lui non ne vuole sapere. Allora è venuta la proposta che faccia tu il Presidente”. Non mi disse altro, era uomo di poche parole. Io gli chiesi un po’ di tempo per riflettere. Tornai in cucina e raccontai la cosa a mia moglie: non mi parve affatto entusiasta. Mi disse: “Ma in che lavoro ti vai a cacciare?”. Non fui della stessa opinione. Ci pensai qualche minuto, mangiai un frutto, non mi consultai con nessun altro: ripresi il telefono, chiamai Berlinguer e dissi di sì, che accettavo.

Come mai?

Il lavoro nel Parlamento mi è sempre piaciuto molto. Alla fine degli anni Cinquanta fui io a chiedere di uscire dalla Segreteria e di lasciare la direzione della sezione “Stampa e propaganda” per andare a lavorare alla Camera. Lo feci tra la sorpresa generale, perché allora stare in segreteria – nella segreteria con Togliatti – era un compito di grande prestigio: tra i più elevati a cui si potesse aspirare.

Perché lo facesti?

Per due ragioni. La prima riguardava me stesso. Per come mi conoscevo ritenevo che tra le mie doti non ci fosse quella cosiddetta dell’”agit-prop”. Sapevo che c’erano compagni molto più bravi di me in quel lavoro. Per esempio Pajetta, per il quale, peraltro, non avevo grande simpatia personale (né lui l’aveva per me). Pajetta sapeva inventare slogan, costruire una campagna di comizi, mettere in burla gli avversari. insomma aveva un talento per tutte quelle cose che deve fare un agit-prop. Io no. E infatti Pajetta fece la propaganda molto meglio di me. La seconda ragione per la quale chiesi di lasciare la segreteria è che quel palazzo – Botteghe Oscure – a me non era mai piaciuto molto. Sembrerà strano, ma non mi garbava il clima, il gergo, il tipo di relazioni che era in uso fra quegli apparati. Ero abituato ai rapporti che avevamo al giornale, all’Unità: forse per il compito stesso a cui bisognava assolvere, erano molto più concreti, più intensi, più aperti. E poi la situazione nella Segreteria del partito per me era diventata difficile, perché su temi di fondo non la pensavamo nello stesso modo: da parte mia c’erano dissensi forti, specie con l’analisi e l’ipotesi politica a cui guardava Amendola, che già allora pesava molto nel gruppo dirigente.

Il lavoro alla Camera ti piaceva?

Si. Lo trovavo molto appassionante: prima di tutto per il continuo confronto che si realizzava con l’avversario politico e anche all’interno dei vari rami della sinistra di opposizione. Inoltre nella segreteria del gruppo parlamentare lavorava un compagno di grande intelligenza, Renzo Làconi. Aveva il senso dell’aula, la prontezza nel confronto delle opinioni, e anche la battuta pungente che faceva scattare gli ascoltatori. Era sardo, e un grandissimo oratore. Ricordo che a Torino,quando si andava a tenere un comizio – o a parlare un una sala, in un cinema – ti dicevano: occhio all’orologio, a mezzogiorno il locale deve essere vuoto perché a mezzogiorno i torinesi si alzano e vanno a pranzo. E tutti avevano sperimentato la dura legge del mezzogiorno torinese. Accadde qualcosa del genere anche Togliatti e ne restò stupito. Teneva il comizio di chiusura della Festa dell’Unità in una grande arena. Di solito quando parlava Togliatti non volava una mosca, nessuno nemmeno si alzava dalla sedia.

Quella volta però Togliatti fu troppo lungo, e ad un certo punto gli ascoltatori cominciarono ad andar via: ci parve incredibile e inaccettabile. Làconi forse fu l’unico a violare il vincolo del mezzogiorno torinese: una volta parlò fino alle 12 e 25 senza che nessuno si levasse dalla sedia…

Perché il lavoro alla Camera ti piaceva?

A tanti di noi piaceva: forse la durezza della cospirazione clandestina ci aveva messo in testa quel tipo di democrazia parlamentare-assembleare. E – qui forse esagero – per una ragione di fondo: avevamo bisogno del confronto pubblico delle idee, la messa a prova delle ideologie in campo aperto. Speravamo così di costruire un rapporto permanente con il Paese: sulle decisioni da prendere. A volte, nell’urto delle opinioni, in quell’assemblea si arrivava anche alle zuffe violente. Ma esisteva anche un rispetto reciproco. Sovente in quelle aule scattava un uso che a me piaceva molto: ed era quando la sera, a fine seduta, uno di noi si levava in piedi dal suo banco e interrogava il governo su un evento di rilievo che era accaduto in quel giorno, se mai in qualche sperduto paesino, e che a noi sembrava grave. Chiedevamo –appunto- che il ministro venisse a riferire all’assemblea: e il ministro – anche un avversario antipatico come Scelba – di solito veniva, e riferiva, e si discuteva. E si ottenevano anche della cose. Oggi mi pare che questo collegamento attivo, quotidiano del Parlamento con le vicende del Paese si sia sbiadito, per non dire addirittura scomparso. Io invece avevo fitta in testa l’idea di estendere questa relazione “assembleare” anche alla vita dei comuni, alle province. Avevo in mente una sorta di figura di sindaco-capopopolo, che chiamava a discutere i problemi della città coralmente: a volte anche coinvolgendo i cittadini in assemblee di piazza

Per tutte queste ragioni, diversi anni dopo, accettasti la proposta di fare il Presidente della Camera…

Beh, avevo in mente questa forma della politica. In verità allora compagni miei molto cari mi rimbrottarono: la considerarono una decisione sbagliata. Ricordo che dissentì da quella mia scelta anche un amico carissimo, come Trentin. Io invece non ebbi rimpianti. Poi –vedi- il partito comunista era una cosa strana. Con quale logica politica “correntizia” si potrebbe mai spiegare la decisione che in un posto rifiutato da Amendola ci andasse – lasciami dire queste parole un po’ presuntuose – il principale antagonista di Amendola? Forse in nessun altro partito poteva accadere una cosa del genere. Così eravamo.

Tu mi hai detto che qualche anno prima di diventare presidente della Camera andasti da Berlinguer e criticasti il compromesso storico. Giusto?

Sì.

E come andò quell’ incontro?

Bene e male. Bene perché lui fu molto civile, molto corretto. Ascoltò con garbo. Male, perché credo che non capì le ragioni del mio dissenso. Anche perché forse io non seppi spiegare la mia obiezione fondamentale. Che poi era questa: avvertivo ormai una crisi della nostra politica, dopo le grandi novità e gli eventi mondiali del ‘68. Sentivo che bisognava cambiare strada. E il compromesso storico, così come Berlinguer lo aveva proposto, proprio non mi sembrava una svolta, a guardare quel compromesso prudente che cercava l’elefante democristiano.

Eri contrario a una intesa con la Dc?

Non è proprio esatto. Io non pensavo che fosse impossibile avere un rapporto e forse anche un’intesa politica di fondo con la parte avanzata e riformatrice del mondo cattolico italiano. Avevo molte relazioni con tutta una componente di quel mondo cattolico: punti di incontro forti con persone come La Pira, e con figure del pensiero e della vita religiosa come padre Balducci. Ebbi anche incontri singolari: per esempio una relazione lunga e intensa con un gruppo di monaci camaldolesi che aveva la sua casa principale sulle bellissime colline di Monte Giove, che si specchiavano sulla costa di Fano. Se tu mi chiedessi, ora, la figura più alta che io ho incontrato nella mia vita ti risponderei: padre Benedetto Calati, che guidava quel convento di monaci. E fu uomo che cercava: animatore appassionato ed aperto di dibattiti intensi e amichevoli fra gruppi di cattolici e intellettuali atei che militavano nella sinistra: da Rossanda a Tronti. O anche con figure alte della Chiesa Valdese. E in quei confronti così liberi viveva sempre una tensione di ricerca, una volontà comune di ascolto, una problematicità. Furono più frammentati i miei rapporti con i gruppi del cattolicesimo padano e veneto: conobbi tardi “Nigrizia” e una figura come Alex Zanotelli, ma afferravo la domanda di riscatto e di liberazione che viveva nel loro rapporto col Terzo Mondo. Ero convinto che il partito comunista e la Democrazia cristiana fossero i soggetti politici principali della vita politica italiana in quegli anni sessanta e settanta. Ma il quadro politico del Paese mi sembrava già in forte agitazione, e con fratture sostanziali che apparivano roventi. E il fermento non scuoteva solo i partiti. Agiva una pluralità di presenze anche nel mondo cattolico ufficiale: e vedeva accomunate sulla scena le ACLI di Labor, la sinistra della CISL, e leader sindacali di forte originalità come il segretario dei metalmeccanici della FIM Pierre Carniti. Agivano anche intrecci forti. La stessa Chiesa italiana aveva avuto molte facce. Da quella pesante e chiusa di Pio XII, a quella intensa di tutta un’ala influenzata dal pensiero francese di Maritain e Mounier . Per non parlare di Papa Giovanni.

E perché allora respingevi l’idea dell’accordo col mondo cattolico?

Il mondo cattolico era una realtà di livello mondiale: a molte facce. E io ne avevo conosciuto una di queste, che sentivo duramente ostile e lontanissima dalle mie speranze.

Però quando Berlinguer propose il compromesso storico c’era già stato papa Giovanni, c’era Paolo VI, e quella componente reazionaria della Dc che tu dici era stata sconfitta. Aveva vinto Moro…

Si per un verso quello che dici è vero. Ma la partita nella Dc non era affatto chiusa. La componente reazionaria era forte, anche se si mescolava volutamente con altre correnti o fazioni. Direi che il partito democristiano era una soggettività – al tempo stesso – coesa e ultra-differenziata. Avevano preso qualcosa dalla duttilità (e dalle molte facce)della Chiesa cattolica. E -all’interno- pesava molto anche il gioco delle personalità, i retroterra culturali diversi, gli orientamenti “locali”. E poi forse i capi democristiani si illudevano ancora – in quei brucianti anni ’70 – di avere in mano carte e fili che si erano invece consumati. Ricordo di molti incontri che ho avuto, quando ero presidente della Camera, con Galloni, che era un uomo di Zaccagnini, ma anche con Flaminio Piccoli. Io dicevo: “Se davvero volete giungere a questa intesa con i comunisti, dovete spicciarvi: l’Italia non può reggere in questa incertezza, è pericoloso…” Mi rispondevano: “le resistenze sono enormi, abbiamo bisogno di tempo”. Invece il tempo non bastò: e andò tutto all’aria, e Zaccagnini fu sconfitto. I l fatto è che non si trattava solo della DC. La prospettiva di una intesa Berlinguer-Moro scatenò una reazione violenta non solo in fasce larghe della costellazione cattolica impegnata nella politica.. Nei modi suoi agì tutto un fondo conservatore (per non dire reazionario) del Paese. Non so dire quanto in quella resistenza c’entrarono di mezzo anche figuri come Licio Gelli o capi di una losca ala massonica. E in fondo si capisce. In caso di un accordo Moro-Berlinguer veniva spezzata -in un pezzo d’Europa non da nulla- la dura frontiera che dal ’45 spaccava il globo in due parti. La posta era davvero grande.

Rivedendo quel periodo lì, trent’anni dopo, e rileggendo le riforme che furono approvate, si ha l’impressione di una avanzata impetuosa. Ci furono grandi conquiste del movimento dei lavoratori…

Sì, furono conquiste di grande importanza, troppo dimenticate. Ma furono selvaggiamente combattute: anche come sviluppi e frutti della cruciale insorgenza del ‘68. La prima di quelle conquiste fu il divorzio; e chi guidò e scatenò l’iniziativa contro il divorzio fu curiosamente Fanfani, che pure non era un reazionario, anzi negli anni Sessanta aveva spinto – ti ricordi? – per l’intesa coi socialisti. Io stesso, quando fui presidente della Camera, ebbi momenti e occasioni di collaborazione schietta con lui. Il fatto è che quella transizione, direi quel tumulto sorto col ’68, era un processo diseguale e contraddittorio. Lasciami avanzare un’ipotesi di lettura. A mio avviso negli anni ’70 ci fu una parte della borghesia padronale italiana che effettivamente si chiese se non fosse possibile arrivare ad un accordo con il partito comunista. Quindi le cose si spinsero abbastanza avanti. Ricordo episodi, fatti, cose, dai quali risultava evidente che pezzi della borghesia erano prudentemente favorevoli a un accordo col Pci, o perlomeno si interrogavano: e cercavano di leggere cosa fossero e dove portassero effettivamente quei comunisti strani, che avevano avuto anche litigi e rotture con Mosca. E Berlinguer, in qualche modo, sembrava a loro un’altra cosa. Contemporaneamente però ci fu un’altra ala del mondo borghese che condusse una lotta all’ultimo sangue per impedire l’incontro. Abbiamo parlato di Licio Gelli. Forse c’è stata qualche esagerazione sul ruolo della P2. Ma l’opposizione aspra del governo americano è fuori discussione. E gli americani non stavano con le mani ferme.

Se capisco bene, l’obiezione fondamentale che tu facevi era di “realizzabilità”. Cioè dicevi: questo incontro è impossibile”. E’ così?

No: io pensavo che per fare quella operazione bisognasse sviluppare molto di più l’aspetto della rivoluzione sociale rispetto all’aspetto dell’accordo politico: cioè che bisognasse riprendere e rilanciare il grande moto del ’68, che non era ancora spento. Di quel moto la dirigenza comunista non afferrò tutta la portata, né seppe trarne le conseguenze. Per me bisognava costruire un’intesa innanzitutto sulle grandi questioni sociali che il ’68 aveva appena cominciato a squadernare. Era là la nostra forza, o più esattamente (perché non si trattava per nulla solo di noi) la forza del rivolgimento che era in campo. E in quel moto sociale del ’68-‘69 c’erano comunisti, socialisti, ma anche grandi forze cattoliche: non solo strutture diffuse e articolate come le Acli, la Fim di Carniti, o anche cenacoli, per esempio quello che si raccoglieva a Firenze attorno a una figura irrequieta come quella di Ernesto Balducci. Emergevano e parlavano intensamente a tutta una parte coraggiosa e combattiva del mondo cattolico come “Nigrizia”, “Pax Christi”, in prima linea nel discorso sul Terzo e sul Quarto Mondo. Io pensavo che dovessimo prendere atto della singolarità o stranezza della situazione italiana: nelle sue due facce. Una è che in Italia c’erano dei preti reazionari, feroci, che difendevano il potere temporale e la conservazione sociale: di cui c’erano esemplari antichi e nobilissimi come il cardinale Ottaviani, e poi ceffi come Gedda. Ma a fianco a loro già negli anni Cinquanta erano sorte figure nuove ed emozionanti (ma che ebbero purtroppo vita breve) come Don Milani. Se vuoi, poi ti racconto il mio incontro con Don Milani: non lo potrò mai scordare. A guardare la grande Europa, questo progressismo religioso (dire “rivoluzionario” è troppo) metteva in movimento masse e culture. Tentava una rilettura del mondo profano e un progetto. Ma aveva avversari forti nella Curia. E nel Paese quei cattolici rivoluzionari spesso erano quasi “isole” oppure (lasciami dire una parola del mio vocabolario) avanguardie.

Tu vedevi il compromesso storico come qualcosa che ingabbiava questo processo: che gli dava uno sbocco politicista?

Esattamente. Politicistico. E lo vedevo come una formula che ci toglieva la possibilità di giocare la carta giusta, che era quella di una rivoluzione sociale che andasse incontro alle nuove domande, che sgorgavano da due fonti: la seconda mutazione capitalistica – il post-fordismo se vogliamo chiamarlo così – e la nuova dimensione “globale” che rimescolava i soggetti e i luoghi dei saperi nuovi. Tutte le mie riserve sul cammino del compromesso storico si ingigantirono quando diventai presidente della Camera. Nei suoi modi quello era un posto di potere. Da lì vedevo molte cose: almeno quelle immediatamente “politiche”. E alcune vicende che mi lasciavano basito. Presto avvertii – per esempio – chiaramente che la relazione tra Dc e Pci era affidata in gran parte ai colloqui tra Ferdinando Di Giulio (che era il vice-capogruppo e poi il capogruppo del Pci) e Franco Evangelisti (che era l’uomo di fiducia di Andreotti). L’incontro tra Di Giulio ed Evangelisti avveniva ogni mattina e – se posso usare questo termine – diventò una specie di istituzione riservata (ma non troppo). Di Giulio era una persona molto intelligente, Evangelisti era un faccendiere che si occupava della politica corrente. Si incontravano ogni mattina sui divani del Transatlantico di Montecitorio. E discutevano punti di mediazione, intese, intrecci da cancellare. Con questo rapporto di vertice ci si illudeva di poter aggirare ostacoli ben più corposi, che investivano nodi sostanziali: prima di tutto quell’intreccio tutto italiano (e spesso torbido) rappresentato dall’industria di Stato, che aveva impresso il suo timbro in larga parte alla modernizzazione dell’Italia, e ormai doveva misurarsi con la dimensione “globale” e la nuova ondata di tecnica innovativa che sbrigativamente noi chiamavamo “post-fordismo”. E in Italia non c’era in campo solo la borghesia conservatrice: c’era la parte “bizzoca” per non dire reazionaria della Chiesa, o anche la Dc moderata ma ben radicata e coriacea. E soprattutto c’erano gli americani (Moro fu lasciato ad attendere lungamente in anticamera nell’incontro delle Hawaii), tutte forze che erano contrarissime all’accordo Dc-Pci. E per quel che ne so erano contrari anche i sovietici.

Quando eri presidente della Camera come ti comportasti di fronte a questa crisi?

Feci alcuni tentativi. Per esempio feci il tentativo di attivare un livello di potere laterale ma importante, e cioè il potere locale: quello che era chiamato “delle cento città”. Noi comunisti eravamo diventati forti nei Comuni e nelle Regioni. Avevamo da poco conquistato per la prima volta il posto di sindaco in grandi città come Roma, Torino, Napoli. Dirigevamo Regioni che incidevano nella lunga storia d’Italia, come l’Emilia, la Toscana, l’Umbria: luoghi vitali nello sviluppo del paese e che alle loro spalle avevano la memoria di grandi tradizioni socialiste. E anche luoghi di potere a grande autonomia come la Sicilia e la Sardegna, che godevano di poteri speciali. Mi chiedevo se – nella partita che s’era aperta – non dovesse entrare in campo tutta questa rete che indicavamo col nome di “potere locale”, ma che aveva un grande peso in una nazione delle “cento città” come era l’Italia. In questo dialogo con il potere locale devo dire che fui aiutato anche da Fanfani, che era presidente del Senato: si stabilirono, fra noi due, contatti fecondi, che puntavano ad allargare l’influenza delle assemblee elettive, che in Italia costituivano una trama ricca e differenziata. S’erano anche formati punti di incontro importanti: per esempio l’asse tra il presidente Dc della Regione lombarda, Piero Bassetti, e il presidente comunista dell’Emilia, Guido Fanti, e anche rapporti stretti tra i sindaci “rossi” di Roma, Torino, Napoli, Bologna, Perugia. Insomma un “luogo politico” molto italiano e a forte presenza “rossa”. Ricordo anche che – con l’aiuto di Fanfani – organizzai a Roma, a Montecitorio, delle riunioni dei presidenti dei consigli regionali e dei grandi Comuni. Speravo che così potesse sorgere un’articolazione inedita del potere politico, che scavalcava le strettoie di partito e anche dei nuovi potentati dell’industria e della finanza. Insomma, io avvertivo certamente il bisogno di una riforma democratica dei poteri, che immettesse le masse nei luoghi di comando.

Perciò la strada degli incontri tra Di Giulio ed Evangelisti mi sembrava proprio un sentiero angusto, che non poteva reggere alla vastità e difficoltà della posta in gioco. Vedi: non era l’idea dell’intesa tra comunisti e cattolici che io avversavo. Avversavo il modo ristretto e debole con cui questo tema così aspro veniva affrontato.

All’inizio degli anni ’80 Berlinguer lascia la strategia del compromesso storico e lancia l’idea dell’alternativa di sinistra. E’ una svolta?

Si, ma restano i limiti di cui discutevamo prima, secondo me. Resta il limite fondamentale: la valutazione inadeguata del livello sociale della battaglia. Berlinguer aveva un rapporto debole con tutta una componente sociale che tra il Sessanta e il Settanta aveva aperto un nuovo discorso sociale sul lavoro, come luogo centrale dell’emancipazione umana, e avviata una lettura nuova, seppure ancora insicura, dei mutamenti sconvolgenti del capitalismo post-fordista. Certo: ricordo bene che proprio quando cominciarono il tramonto del “sessantotto” e la controffensiva guidata dalla FIAT, Berlinguer scese in campo personalmente: andò a parlare davanti ai cancelli della Mirafiori occupata dagli operai: e fu un incontro emozionante. Eppure, a mio avviso, egli non afferrò ancora la centralità del nuovo livello di scontro che s’era aperto, ad esempio, tra gli operai della FIAT e l’innovazione reazionaria di Romiti. E cercò, sì, l’incontro con Moro, e dialogò con monsignor Bettazzi. Ma non provò a misurarsi col mondo a cui venivano rispondendo avanguardie come Balducci. Enrico è una figura che vede la crisi del conservatorismo cattolico. E tenta addirittura un’intesa di governo tra cattolici e comunisti: in una nazione d’Europa, sede del papato e paese di frontiera tra Est e Ovest, e tra Nord e Sud: quindi luogo ultrasorvegliato dagli americani e dai sovietici. In un tal luogo pensare di poter vincere senza giocare la carta di nuove alleanze sociali e – lasciami dire questa parola presuntuosa – senza inventare possibili nuovi luoghi di potere, era illusione.

Sono due critiche opposte: avere mancato sul piano sociale e non essersi posto il problema del potere… No, non sono opposte. Io le considero due critiche coordinate. Certo: questo rimanda a un discorso che vado facendo nuovamente ancora oggi: per esempio quando mi capita di partecipare alle riunioni con i giovani, e con i gruppi di no-global. Insisto sempre e testardamente su una domanda: dobbiamo capire come si incide sui punti dove si prendono le decisioni: quelle vere: formali e di sostanza. Noi viviamo in società complesse in cui la politica ha una fortissima articolazione e i luoghi del potere sono – come dire? – sparsi sul mondo. Bisogna dire che il comunismo italiano non è stato “provinciale”, e ha teso sempre a incidere sui luoghi sostanziali di potere anche quando e dove era stato confinato duramente all’opposizione. Ma in quegli anni Settanta di cui stiamo parlando eravamo nel pieno di un contrattacco reazionario, che vedrà poi figure come Reagan e la Thatcher e innovazioni radicali rispetto al vecchio fordismo. E l’offensiva anti-operaia è proclamata con squilli di tromba: anche sul terreno teorico. Ti ricordi la riunione della “Trilateral” nel cuore degli anni Settanta? Come chiama ruvidamente al contrattacco…

La critica a Berlinguer, dunque è una sola. Sia il Berlinguer del compromesso storico sia quello dell’alternativa manca nel legame sociale, nella capacità di fronteggiare il nuovo mondo produttivo…

Si, manca nel cogliere le novità che si producono nel conflitto sociale, e quindi in quello che una volta si chiamava il “legame con le masse popolari”. Può sembrare una affermazione ingiusta e persino paradossale, perché la popolarità di Berlinguer è stata enorme. I suoi funerali videro davvero un corteo immenso, una nazione in lagrime. Eppure io, in più occasioni decisive, ho avvertito in lui l’illusione di poter scavalcare i problemi reali con una intuizione “tattica”. Così come era illusione pensare che si potessero eludere i tre grandi nemici: la borghesia reazionaria italiana, l’amministrazione americana e l’Unione sovietica. L’ostilità delle due grandi potenze fu decisiva. Quelle due metà del mondo avevano una formidabile rete di penetrazione e di controllo nella e sulla politica italiana. E c’è una strana somiglianza tra le carenze del tentativo che fa Berlinguer, e quello che nello stesso periodo mettono in campo Moro e Zaccagnini (e forse persino uno come Piccoli) di portare a quelle nozze la Dc senza aprire una lotta interna, senza attaccare i luoghi di potere che dentro la Dc si battevano per una strategia diversa e opposta. Per questo essi pèrdono: perché non danno vera battaglia agli avversari. Non vanno a fondo delle questioni. Non portano alle naturali conseguenze l’impresa di mettere in campo un’intesa con i “rossi” cresciuti nella speranza della rivoluzione sociale, e che si proclamavano allievi nientemeno che di Gramsci. Ricordo i colloqui che ho avuto in quegli anni con un funzionario della Camera che si chiamava Tullio Ancora, ed era un uomo di fiducia di Moro. Spesso io gli segnalavo problemi politici urgenti e lui mi recava in risposta l’opinione di Moro. Diceva Moro: “Si, è vero, ma non si può. Non ce la facciamo. Ci vuole tempo”. Sembrava una linea realista, ma non lo era. In verità Moro è andato parecchio avanti: ricordo, poco prima di morire, quel famoso discorso di Benevento, in cui egli mette esplicitamente sul piatto la possibilità di un incontro tra Dc e sinistra sul tema del socialismo. Per la prima volta dentro la Dc viene rinominata questa questione. E – a mio avviso – egli non alludeva solo a un governo coi socialisti e coi comunisti, ma al tema grandissimo del rapporto tra cattolici e socialismo. Era un tema che, a suo modo, aveva già posto – e sul quale era stato sconfitto – Giorgio La Pira.

Hai detto che uno degli ostacoli fu l’Urss…

Si. Forse io di questo mi accorsi tardi. Però a un certo punto la consapevolezza fu chiarissima. In ogni modo la vicenda della repressione di Praga fu un grande e sciagurato punto di verifica. Anche Longo lo vide: l’Urss non cambia: e non permette – nella sua area – che altri cambi. E questo modificava quasi tutto della nostra prospettiva politica. Praga fu una tragedia: prima c’era stata Budapest, poi venne la mazzata di Praga che fu definitiva. E chiuse ogni ipotesi di restare amici stretti dell’URSS e al tempo stesso costruire una via nuova al socialismo in Europa. Io, la prima volta, ai tempi di Budapest, sbagliai clamorosamente: difesi i sovietici che aggredivano l’Ungheria. La seconda volta non sbagliai. Capii che si era chiusa una fase.

Poi si arriva al ’79, ci sono le nuove elezioni del Parlamento e tu non torni a fare il presidente della Camera. Perché?

Io a quel punto mi sono reso perfettamente conto del fatto che su sulle basi – diciamo così – del “compromesso storico” non ce l’abbiamo fatta e non ce la possiamo fare. E allora quando viene il momento della decisione di nominare il nuovo presidente della Camera, e quando il partito mi chiede di tornare presidente, io dico di no. Ricordo una serie di colloqui lunghi e tesi con Berlinguer, a casa sua. Lui un po’ non capisce, un po’ tenta di persuadermi. Ma io avevo ormai maturato a lungo il mio no. Si arriva a una riunione di Direzione per prendere la decisione. E là, a un certo punto, si alza Ugo Pecchioli e dice: “noi siamo abituati a vivere e operare in un partito nel quale quando il partito prende una decisione si dice sì e basta”. Insomma, mi accusò di grave, illecita indisciplina. Anni dopo, lui che era persona molto seria e leale, un giorno mi avvicinò e mi disse : “ti ricordi quella volta che io ti rivolsi quell’attacco? Mi sbagliavo io. Non avevo capito…”. Devo dire che mi fece piacere. Comunque io ressi a tutte le pressioni, anche di Berlinguer. Mantenni la mia decisione di non candidarmi a presidente della Camera, perché ero certo che la politica del Pci non reggeva, e la prospettiva cosiddetta del “compromesso storico” ormai era in crisi. E volevo tornare a pensare, a cercare le cause degli errori, e le possibili vie di uscita. Per esempio: mi rendevo conto che in molti paesi d’Europa le cose erano andate diversamente. Specialmente in Austria, in Germania, nei paesi scandinavi. Là la socialdemocrazia aveva trovato una sua via. Ce l’aveva fatta. Mentre noi no. Noi eravamo andati molto avanti nella presenza tra le masse ma non eravamo riusciti a costruire una prospettiva di governo e di rinnovamento sociale.

Berlinguer, secondo te, sottovalutò l’importanza delle socialdemocrazie europee?

Sì. Anch’io sottovalutai quell’importanza. Penso che non abbiamo saputo tessere un rapporto costruttivo con le socialdemocrazie europee e una prospettiva di lotta comune con esse. E non abbiamo capito abbastanza il tipo di esperienze sociali che avevano preso corpo in Nord-Europa. Del resto abbiamo lasciato morire senza un sostegno reale anche il gracile tentativo dell’eurocomunismo: un errore che conferma ancora la nostra debolezza – di fatto – nella relazione con il nostro Continente, e nonostante l’eco mondiale che aveva suscitato il comunismo italiano..

Neanche Amendola capì il ruolo delle socialdemocrazie?

Secondo me neanche Amendola: lui era convinto che il problema vero fosse che il capitalismo italiano era arretrato: era uomo che aveva in mente soprattutto progetti di modernizzazione capitalistica italiana: almeno così penso. Lui poi era uno che voleva fare un socialismo suo, senza modelli; però diceva: “non tocchiamo l’Urss”. Mi sembrava che il filo ultimo del suo ragionamento fosse: “è vero, l’Urss non va bene, c’è stata Budapest, c’è stata Praga, c’è stata Kabul: però noi non dobbiamo impicciarci”. E questo francamente a me appariva pesantemente contraddittorio: duramente astratto, nonostante il suo continuo richiamo al realismo.

Il tuo quindi è un giudizio critico, su Berlinguer?

Penso che Berlinguer ebbe il forte merito di intendere fermamente il nodo, il problema di prospettiva che avevamo davanti. Capì la drammaticità del momento. Si rese conto che stavamo attraversando un crinale decisivo. E tentò una via di salvezza. Questo è un suo merito: e confesso che questo aspetto della sua posizione io non lo afferrai subito: e nemmeno il coraggio di alcune sue affermazioni. Per me più che lo scritto sul “compromesso storico”, la sua vera svolta fu quando rispose a una domanda esplicita di Gianpaolo Pansa, giornalista del “Corriere della Sera”, che lui si sentiva più tranquillo sotto l’ombrello della Nato. Quindi – nonostante le apparenze – egli andò molto avanti nel giudizio sull’URSS. Però ho l’impressione che non tentò le alleanze internazionali necessarie. Restò chiuso in Italia. Anche l’idea dell’eurocomunismo – che aveva una sua novità e segnava un forte attacco all’URSS – non mi pare che l’abbia vista come decisiva. Non ci puntò molto. Ebbi l’impressione di una sua adesione piuttosto formale, rituale. Il comunismo italiano ha faticato tanto a costruire un rapporto reale con la socialdemocrazia europea. E invece quello era un interlocutore necessario, o almeno un forte alleato possibile. Forse sono ingiusto. Ma Berlinguer non afferrò e non enunciò le condizioni per una possibile alleanza europea.

Perché rifiutasti il secondo incarico a Presidente della Camera?

Perché avvertivo il bisogno di capire tutto un grande pezzo della sinistra europea che mi parve un interlocutore necessario e un alleato possibile. E mi misi a girare per le capitali politiche del Continente. Fu un tentativo consapevole di uscire dalle secche del leninismo, e tornare a una analisi di classe corretta.

Mi hai detto che poi mi avresti raccontato del tuo incontro con Don Milani…

Si. L’incontro fu organizzato da un mio amico prete fiorentino: don Nesi, con cui avevo amicizia dagli inizi degli anni Sessanta. Don Milani era già noto e c’era già polemica intorno alla sua figura. Con don Nesi ci recammo lì a Barbiana, mi sembra in un gracile inizio di primavera, un pomeriggio sul tardi, con un cielo nebbioso. Siamo saliti sulla collina, prima in auto, e poi, nell’ultimo tratto, a piedi. Don Milani ci accolse con gentilezza, ma anche con evidente distacco. Senza alcun accenno di simpatia. Anzi quasi un po’ stanco: come dinanzi a un rito un po’ noioso. E tagliato corto con i convenevoli ci propose un programma chiarissimo. Disse: qui c’è la scuola, entriamo dentro e apriamo un colloquio tra il politico di Roma e gli scolari. Nessun preambolo e nemmeno troppi complimenti. Io sono entrato con una certa ansia in quella stanza piena di ragazzi, e loro non hanno atteso un minuto: hanno iniziato subito a fare domande. Avevano come tema, potremmo dire oggi, “Roma ladrona”, e i politici corrotti o che non combattevano contro la corruzione e per i diritti. Eccetera. Si vedeva facilmente che si erano preparati. Don Milani non disse nulla. Io mi trovai di fronte a quelle domande impertinenti, e stavo per irritarmi, anche perché le domande nella loro formulazione erano rivolte chiaramente contro di me, o per lo meno contro l’immagine che i ragazzi avevano in testa di quel politicante romano. Ebbi però la saggezza di non arrabbiarmi di fronte a quel palese pregiudizio (persino con qualche accento di disprezzo), e di rispondere a tutte le questioni, anche le più impertinenti: senza sottrarmi. Poi a un certo punto mi decisi a interromperli. E dissi: “Capiamoci bene, ragazzi. Io non sono quel politico che voi avete in testa: la penso in un altro modo, la mia vita è un’altra cosa e probabilmente su tanti argomenti non la pensiamo in modo diverso”. Rimasero sorpresi? Certo ci fu il disgelo. Loro cambiarono tono e domande, e s’avviò un dialogo. Solo allora intervenne anche Milani. Diventò come un appassionante interrogarsi intorno a un piccolo tavolo. Fu molto emozionante. Però anche quando ci siamo salutati ricordo che ci scambiammo con Don Milani delle parole gentili, ma non ebbi l’impressione di una comunicazione effettiva. Sembrava che mi considerasse ancora – cosi pensavo, scendendo – “uno della pianura”.

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