Il Terremoto dell’Irpinia

dall’intervista a “L’Unità”, dicembre 1980


La questione morale esiste da tempo. Ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione clipende la ripresa di fiducia nelle istitu­zioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regi­me democratico.

È un fatto, è una dura realtà che se si vuole impedire lo scivolamento dell’Italia verso una condizione da paese di secondo o terz’ordine la gente deve essere chiamata a grandi sforzi e grandi sacrifici. La Dc ha l’autorità per farlo? Detto molto semplicemente è questo, oggi, il problema politico ita­liano. […]

I ministri hanno detto che questo non è il tempo della polemica, ma dello sforzo unitario e della solidarietà di fron­te alla catastrofe. Se questo ammonimento era rivolto a noi, hanno sbagliato indirizzo.

Infatti non si può nemmeno para­gonare ciò che i comunisti hanno fatto e stanno facendo (ab­biamo mobilitato migliaia e migliaia di militanti, tutte le no­stre organizzazioni, al Sud come al Nord, abbiamo impegna­to la Direzione e il Comitato centrale in un grande sforzo di idee e di proposte) con ciò che stanno facendo altri partiti. E tutto questo con assoluto disinteresse, ricercando l’unità e la fratellanza con tutti gli uomini di buona volontà. Abbia­mo anche escluso, in questo momento drammatico, una crisi di governo per non creare vuoti.

Ma il governo, evidentemente, chiede un’altra cosa che sarebbe assurdo concedergli: vuole che non si parli delle responsabilità.

Il terremoto ha scosso gli italiani non soltanto per la im­mensità della tragedia umana, ma per il fatto che esso ha messo a nudo il punto estremo di contraddizione tra la con­dizione dello Stato e le esigenze più elementari del paese.

Sono riemerse le responsabilità storiche per la decadenza e il saccheggio delle zone interne del Mezzogiorno, si è ripro­posta sotto una luce drammatica l’intera questione meridio­nale, che i teorici della «modernità» consideravano ormai accantonata per sempre. Mi hanno colpito le parole dram­matiche di De Martino, che condivido: «Se non si determi­na oggi una svolta, non è soltanto la questione meridionale che non si risolve, ma tutto, l’intera questione italiana, la sopravvivenza democratica del paese».

Anch’io mi domando se ora, dopo il disastro, ci si rende conto dei problemi che il paese dovrà affrontare per la rina­scita di quelle zone, e soprattutto delle novità che si dovran­no introdurre in tutta la concezione dello sviluppo naziona­le.

Perché il problema più grave non sarà il reperimento del­le risorse da destinare al Sud, ma il loro impiego: a quale fine, attraverso quali strumenti, con quali garanzie che non si ripeterà un Belice moltiplicato per cento, con quali forme di partecipazione popolare e di controllo democratico? E con quali mezzi di prevenzione e di repressione dell’ assalto clieruelare e mafioso alla greppia degli stanziamenti pubbli­ci?

E un’occasione storica, si è detto, per il Mezzogiorno. È vero.

Ma a una condizione: che questa volta si dia davvero un colpo al vecchio sistema di potere. Altrimenti ha ragione De Martino. L’umiliazione e la rabbia per una ricostruzione fallita non sarebbero solo del Mezzogiorno, e provochereb­bero una rottura nella compagine nazionale. Ecco che risco­priamo il fondamento oggettivo del governo che noi abbia­mo proposto.

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